domenica 22 gennaio 2017

come se fossimo gli occhi vigilanti e compassionevoli l'uno dell'altra,

Javier Marias

Quel vestito scollato che spuntava da sotto la toga e che indirettamente aveva suscitato tanto fracasso era di un'altra epoca, come lo sono tante volte gli abiti di gala in Inghilterra. E il viso stesso di Clare Bayes era un po' antiquato, con le labbra troppo grosse e gli zigomi tanto alti. Ma non era questo.
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Era che pure lei guardava, e mi guardava come se mi conoscesse da tanto, quasi come se fosse una di quelle figure devote e secondarie che popolano la nostra infanzia e che non sono capaci, più tardi, di guardarci come quegli adulti detestabili che siamo, ma che, per nostra fortuna, continueranno a vederci eternamente bambini con il loro occhio inerte deformato dalla memoria. Quella incapacità benedetta si verifica nelle donne più che negli uomini, in quanto per gli uomini i bambini sono irritanti abbozzi di uomo, mentre per le donne sono esseri perfetti destinati a rovinarsi e a imbrunire, e perciò la loro retina si sforza di conservare l'immagine della divinità transitoria destinata a cessare di esserlo, e se quella retina non poté conoscerla, allora tutto lo sforzo immaginativo che presuppone sempre l'avere a che fare con qualcuno lo riversano nella raffigurazione di quel bambino che hanno magari conosciuto soltanto in fotografia o nell'immagine addormentata di colui che ormai è cresciuto, o forse è invecchiato, o nei neghittosi racconti che l'usurpatore si sarà avventurato a confidare loro dentro un letto, unico luogo dove gli uomini si mostrano disposti a ricordare ad alta voce le cose remote.
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Così mi guardava Clare Bayes, come se conoscesse la mia infanzia a Madrid e avesse assistito nella mia stessa lingua ai miei giochi con i miei fratelli e alle mie paure notturne e alle mie baruffe ingaggiate all'uscita da scuola. E quel suo vedermi così fece sì che io vedessi lei in modo simile.
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esattamente come una di quelle figure devote e secondarie dell'infanzia che poi si fanno recondite per riapparire e illuminarsi nel corso del tempo soltanto un istante, quando sono evocate, e tornare a perdersi subito nell'oscurità delle loro esistenze ignorate e scambiabili dopo aver assolto il loro breve servizio o rivelato il segreto che a un tratto si richiede loro. E così esistono soltanto perché attraverso di esse passi, ogni volta che gli occorra, il bambino.
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Si avvicina l'ora in cui la bambina andrà a dormire, ma prima deve passare un altro treno, ancora uno, perché l'immagine recente del treno che passa e del fiume rischiarato dai suoi finestrini (gli uomini delle chiatte perdono l'equilibrio guardando verso l'alto) l'aiuta a prendere sonno e ad accettare l'idea del giorno seguente in una città a cui non appartiene e che vedrà come sua soltanto quando l'avrà lasciata e non avrà altre occasioni per ricordarla ad alta voce se non con il figlio o con un amante.
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Così mi guardava Clare Bayes e io guardavo lei, come se fossimo gli occhi vigilanti e compassionevoli l'uno dell'altra, gli occhi che vengono dal passato e che ormai non importano più perché ormai sanno come sono costretti a vederci, da molto ormai: forse ci guardavamo come se fossimo tutt'e due fratelli maggiori. E sebbene ancora non la conoscessi, seppi che l'avrei conosciuta e che avrei finito per raccontarle in un letto le inezie che le avrei confidato - di calle de Genova, e de Covarrubias, e de Miguel Àngel - durante tanti mesi di incontri disordinati e intermittenti nella mia casa piramidale di Oxford e anche nella sua, e negli alberghi monotoni di Londra e di Reading e in uno di Brighton.

Tutte le anime
Javier Marias     

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