Chandra Livia Candiani- Poesie
- iL PORTONE
- L'attesa ardente
- Il sonno è nostro
- ci sono le temde
- siamo nuvole
- Estrai la freccia
- Come andare al tempio
- Bisogna dedicarsi
- Dammi l'acqua
- Dunque c'è la luce
- Mappa per l'ascolto
- La vita nuova
- Io accarezzo il silenzio
- Amo il bianco tra le parole
- vado sempre in cerca di poesia
- Che esista l’acqua
- abito la tua voce
- Dunque, per ascoltare
- Abbraccio
- L’universo non ha un centro,
Sulla poesia
- se sento il mio respiro
- È la voglia di comunicare che fa trovare le parole
- sentire, la tirannia del capire, fiducia
- emozione e sentimento
- vado sempre in cerca di poesia
A poco a poco la poesia è diventata una Via per me, simile a un’arte marziale. Mi sono accorta dopo, quando ho incontrato altre Vie che per me la poesia lo era già, quasi una religione, avevo pure dei precetti senza manco accorgermene: parlare poco se no le parole si consumano, non stare troppo con gli altri se no la solitudine ne risente, stare nella natura se no gli altri regni smettono di parlarmi, non riempire i vuoti se no la poesia mi trova occupata e se ne va, non lamentarsi perché la poesia è spesso uno sguardo grato su quel che c’è. E via dicendo, tutto inconsapevole, l’ho scoperto incontrando altre Vie che avevano i loro precetti e regole e pratiche. Io avevo la poesia con le sue regole tutte mie e bislacche parecchio. Certe volte le cambio. Ascolto molto gli altri ora e dedico tempo a sentire l’aria attorno alle loro parole. Aiuta tutte e due. E apre uno spazio per ascoltare anche la poesia.
Non ho mai pensato a cosa volesse dire essere poeta, ho solo scritto, ubbidito, sentito voci e steso dettati. Poi, ho imparato il mestiere del ciabattino, che scuce, stacca, ricuce, suola, leviga, lucida. Ma l’ascolto è quasi tutto, per me. E qui l’incontro con la grande poesia russa, Marina Cvetaeva, Pasternak, Mandel’stam, Blok, Esenin mi ha dato meridiani e paralleli, coordinate: osare chiedere tutto e offrire tutto, l’esagerazione, che era misura buona per me. “Esagerata, esagerata, come nell’ora della nostra morte.” diceva Marina Cvetaeva. Una visione della poesia sterminata.
Per me, la poesia più che un genere letterario è sempre stata una forma di pensiero, una velocità, un battito cardiaco rapido, un modo di stare al mondo senza ricerca di senso ma di accoglienza, accogliere tutto e tutti e dar voce ai più muti di tutti. Per esempio, gli oggetti, fedeli servitori, nostri quotidiani consorti.
Amo le poesie tradotte, lo so che perdono tanto nella traduzione le poesie, il suono, le sfumature, le geografie delle parole, però acquistano una stranezza, sono spesso accostamenti di parole così improbabili in una lingua propria, parlata e ascoltata da sempre. Sono rotture della familiarità e per questo mi fanno tana. La poesia mi ha formato come essere umano che accetta uno spaesamento radicale e insanabile, mi ha insegnato un silenzio imperativo e anche misure diverse tra il senso e il segno, certe dita che indicavano e indicavano imperiosamente ma non avrei saputo dire cosa e certi significati asciutti che si presentavano bussando fortissimo quasi senza segni, perentori e spogli.
Un vacillare che mi ha dato equilibrio, cioè la capacità di perderlo e riacquistarlo di continuo, una solitudine rispetto alla lingua che taglia, ferisce, esclude, compiace, lusinga, una straniera che trova un villaggetto in cui parlano un’antica lingua di ideogrammi, ideogrammi facciali, manuali e anche fatti di piastrelle in cucina e voli di uccelli. Un mondo ideogrammatico che ti fa tirare un sospiro di sollievo. E ti fermi una notte, magari due. Poi riprendi il viaggio, nel mondo estraneo. Ma aspetti notizie, lettere, cartoline: le poesie. Arrivano. Sono sempre arrivate. Finora.
Entrare nel mondo dei poeti mi è difficile, un po’ come un animale selvatico che va in città, ma poi mi basta uno sguardo bello, una parola bianca, un sorriso e sto meglio. Ma resto una clandestina, una barbona delle parole. Sangue di profuga. Una che le viene da chiedere scusa, perché è fuori luogo.
Vado sempre in cerca di poesia, nutre una mia batteria fondamentale, la cerco nei boschi, nella notte, negli alberi, negli animali, nei libri, negli ascolti, negli sbagli. Soprattutto, nella mancanza. Se accetto di mancare, di assaporare quel mio mancarmi sempre, arriva una brezza di parole. È un dono assolutamente immeritato, non sono stati gli studi, né l’intelligenza, nemmeno la sensibilità, e non certo la bontà, nessuna dote positiva e nemmeno negativa. È così, solo un dono ingiusto. E lo accolgo con un salto e ballo e ballo come una vecchina pazza, felice: grazie mondo!
tratto da Vibrisse
Non ho mai pensato a cosa volesse dire essere poeta, ho solo scritto, ubbidito, sentito voci e steso dettati. Poi, ho imparato il mestiere del ciabattino, che scuce, stacca, ricuce, suola, leviga, lucida. Ma l’ascolto è quasi tutto, per me. E qui l’incontro con la grande poesia russa, Marina Cvetaeva, Pasternak, Mandel’stam, Blok, Esenin mi ha dato meridiani e paralleli, coordinate: osare chiedere tutto e offrire tutto, l’esagerazione, che era misura buona per me. “Esagerata, esagerata, come nell’ora della nostra morte.” diceva Marina Cvetaeva. Una visione della poesia sterminata.
Per me, la poesia più che un genere letterario è sempre stata una forma di pensiero, una velocità, un battito cardiaco rapido, un modo di stare al mondo senza ricerca di senso ma di accoglienza, accogliere tutto e tutti e dar voce ai più muti di tutti. Per esempio, gli oggetti, fedeli servitori, nostri quotidiani consorti.
Amo le poesie tradotte, lo so che perdono tanto nella traduzione le poesie, il suono, le sfumature, le geografie delle parole, però acquistano una stranezza, sono spesso accostamenti di parole così improbabili in una lingua propria, parlata e ascoltata da sempre. Sono rotture della familiarità e per questo mi fanno tana. La poesia mi ha formato come essere umano che accetta uno spaesamento radicale e insanabile, mi ha insegnato un silenzio imperativo e anche misure diverse tra il senso e il segno, certe dita che indicavano e indicavano imperiosamente ma non avrei saputo dire cosa e certi significati asciutti che si presentavano bussando fortissimo quasi senza segni, perentori e spogli.
Un vacillare che mi ha dato equilibrio, cioè la capacità di perderlo e riacquistarlo di continuo, una solitudine rispetto alla lingua che taglia, ferisce, esclude, compiace, lusinga, una straniera che trova un villaggetto in cui parlano un’antica lingua di ideogrammi, ideogrammi facciali, manuali e anche fatti di piastrelle in cucina e voli di uccelli. Un mondo ideogrammatico che ti fa tirare un sospiro di sollievo. E ti fermi una notte, magari due. Poi riprendi il viaggio, nel mondo estraneo. Ma aspetti notizie, lettere, cartoline: le poesie. Arrivano. Sono sempre arrivate. Finora.
Entrare nel mondo dei poeti mi è difficile, un po’ come un animale selvatico che va in città, ma poi mi basta uno sguardo bello, una parola bianca, un sorriso e sto meglio. Ma resto una clandestina, una barbona delle parole. Sangue di profuga. Una che le viene da chiedere scusa, perché è fuori luogo.
Vado sempre in cerca di poesia, nutre una mia batteria fondamentale, la cerco nei boschi, nella notte, negli alberi, negli animali, nei libri, negli ascolti, negli sbagli. Soprattutto, nella mancanza. Se accetto di mancare, di assaporare quel mio mancarmi sempre, arriva una brezza di parole. È un dono assolutamente immeritato, non sono stati gli studi, né l’intelligenza, nemmeno la sensibilità, e non certo la bontà, nessuna dote positiva e nemmeno negativa. È così, solo un dono ingiusto. E lo accolgo con un salto e ballo e ballo come una vecchina pazza, felice: grazie mondo!
tratto da Vibrisse
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