Antonio Tabucchi - perchè uno scrive I
Ecco, questo è per dire che in realtà è una domanda così semplice, ma nello stesso tempo così sorprendente, che sorprende anche lo scrittore. Perché uno scrive? Effettivamente... Io personalmente non lo saprei proprio dire da cosa viene questa “necessità”, chiamiamola così, o voglia, o desiderio, ma certo probabilmente appartiene a una sfera di quelle molto profonde, sarebbe a dire, perché appartiene alla sfera erotica, alla sfera del desiderio, e il desiderio appartiene alla sfera dell’eros, se si vuole, in senso molto lato naturalmente.
Ma certo, perché no, insomma. Oppure come rispose Fernando Pessoa:
Cioè, qualcosa che va oltre un nostro fisiologico limite, e poi anche nel desiderio, nella voglia di arrivare più in là della mano, c’è anche un desiderio di evasione. Evasione da cosa poi, sostanzialmente? Ecco che qui mi riattacco brevemente al discorso di “Autobiografie altrui”, anche evasione forse da quello che noi siamo, voglio dire, noi trasportiamo noi stessi dentro una valigia che è il nostro corpo, e siamo quello, ecco. Creare un personaggio significa anche darci l’arbitrio e avere l’illusione di essere un’altra persona.
C’è anche una voglia di molteplicità, dentro noi tutti. La limitazione di essere quello che siamo, una persona, è una limitazione molto forte, però gli dei ci hanno dotato fortunatamente dell’illusione, di una capacità che si chiama “immaginazione”, che ci lascia immaginare, in un piccolo miracolo, che noi siamo un’altra persona. Inventiamo un personaggio. Dietro questo personaggio ci siamo noi, però è un “noi” che è noi. Però noi lo viviamo con molta forza, e con molta convinzione, con molta verità.
Noi lo viviamo con la stessa verità con cui Shakespeare vive Amleto, e poi Shakespeare non è Amleto, non si sa neanche chi era. Però, certo, in quel momento lì lui è Amleto, è un giovane principe tormentato e pieno di dubbi, e che non sa come risolvere una situazione familiare, come esercitare la sua vendetta, e come far funzionare una sua metodica follia, che mette, appunto, a lavorare per difendersi. Così come noi viviamo con la stessa convinzione quando poi abbiamo Amleto sul palco, e lì c’è la grande forza della finzione: ci porta fuori da noi stessi e ci va vivere un’alterità.
Noi sappiamo benissimo che quando l’attore muore sul palco lui non muore, però noi piangiamo. Lui fa una cosa finta e le nostre lacrime sono vere. Come diceva Puškin “ho pianto tante lacrime sulla finzione”. Ma perché piangiamo tante lacrime sulla finzione, che sono vere, sapendo che noi stiamo assistendo alla finzione? Perché questa finzione è talmente caricata di un fatto simbolico, che non è l’attore che sta morendo, siamo noi, è l’uomo, siamo noi tutti, e lui in quel momento è il simbolo della morte, la sta impersonando. Quindi noi capiamo che c’è qualcosa che va al di là di una semplice finzione. Quindi io ritiro la parola che ho detto all’inizio: non è una finzione, è qualcosa di più.
Antonio Tabucchi
tabucchi alla Sagarana
Ma certo, perché no, insomma. Oppure come rispose Fernando Pessoa:
“la letteratura è una dimostrazione che la vita non basta”,
anche questa è una bella risposta, “la vita non basta”, anche perché la nostra mano arriva fino a qui, più in là non va. Invece la letteratura va più in là della nostra mano.
Cioè, qualcosa che va oltre un nostro fisiologico limite, e poi anche nel desiderio, nella voglia di arrivare più in là della mano, c’è anche un desiderio di evasione. Evasione da cosa poi, sostanzialmente? Ecco che qui mi riattacco brevemente al discorso di “Autobiografie altrui”, anche evasione forse da quello che noi siamo, voglio dire, noi trasportiamo noi stessi dentro una valigia che è il nostro corpo, e siamo quello, ecco. Creare un personaggio significa anche darci l’arbitrio e avere l’illusione di essere un’altra persona.
C’è anche una voglia di molteplicità, dentro noi tutti. La limitazione di essere quello che siamo, una persona, è una limitazione molto forte, però gli dei ci hanno dotato fortunatamente dell’illusione, di una capacità che si chiama “immaginazione”, che ci lascia immaginare, in un piccolo miracolo, che noi siamo un’altra persona. Inventiamo un personaggio. Dietro questo personaggio ci siamo noi, però è un “noi” che è noi. Però noi lo viviamo con molta forza, e con molta convinzione, con molta verità.
Noi lo viviamo con la stessa verità con cui Shakespeare vive Amleto, e poi Shakespeare non è Amleto, non si sa neanche chi era. Però, certo, in quel momento lì lui è Amleto, è un giovane principe tormentato e pieno di dubbi, e che non sa come risolvere una situazione familiare, come esercitare la sua vendetta, e come far funzionare una sua metodica follia, che mette, appunto, a lavorare per difendersi. Così come noi viviamo con la stessa convinzione quando poi abbiamo Amleto sul palco, e lì c’è la grande forza della finzione: ci porta fuori da noi stessi e ci va vivere un’alterità.
Noi sappiamo benissimo che quando l’attore muore sul palco lui non muore, però noi piangiamo. Lui fa una cosa finta e le nostre lacrime sono vere. Come diceva Puškin “ho pianto tante lacrime sulla finzione”. Ma perché piangiamo tante lacrime sulla finzione, che sono vere, sapendo che noi stiamo assistendo alla finzione? Perché questa finzione è talmente caricata di un fatto simbolico, che non è l’attore che sta morendo, siamo noi, è l’uomo, siamo noi tutti, e lui in quel momento è il simbolo della morte, la sta impersonando. Quindi noi capiamo che c’è qualcosa che va al di là di una semplice finzione. Quindi io ritiro la parola che ho detto all’inizio: non è una finzione, è qualcosa di più.
Antonio Tabucchi
tabucchi alla Sagarana
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