lunedì 18 luglio 2016

Il ritorno di Don Chisciotte

Anna Lamberti Bocconi


il ritorno di Don Chisciotte

Eccomi, torno a galoppare invano,
a ragionare mulinando al vento.
Mi hanno calato sopra il mio cavallo
con corde tese come in un teatro
col colabrodo sopra il vecchio cranio,
non so perché né come, e non so altro.
Certo che il mondo non lo riconosco
la patria non risponde ai miei richiami
forse non sono più sugli altipiani
sospetto che la Mancia sia lontana…
Mi si dia carta e penna, spazi e gesta,
voglio cantare ancora, e dar di spada
per dividere il giusto dal meschino,
soltanto un po’ di pane e un po’ di vino,
tanto mi basta per ricominciare!


Ho un nuovo impero qui da rifondare
su queste strade prive di sapore,
lo vedo roteante e circolare,
anelli di un Saturno in gestazione.
La notte è il mio dominio più animato,
uccelli che si lanciano richiami
mostruosi e tropicali, becchi a falce…
In questi anni, ahi, quanto ho viaggiato!
Un quetzalcoatl gigante mi svegliava
le lontane mattine delle Indie,
me cavaliere, uomo e buon signore.
La forma antica dalle piume tonde
che volteggiava alta nell’azzurro,
le penne remiganti in muto sprone…
e lì compresi che dovevo andare,
fare ritorno al vostro stanco mondo
nel nome dell’onore, contro i torti,
per tutto il male da rigenerare.
Come spiegarlo a chi non può sapere?
Quanta loquela dovrò adoperare?
Ascolterete dunque la mia storia
che dalla bocca si perde nel vento,
le mie parole vapori di nebbia
lungo le rotte della filovia.
E cominci il mio viaggio, e così sia.

Un gran piazzale come un arrembaggio
di fanciulli rapiti da pirati,
uomini e ragazzetti in movimento:
mi appresso con cautela, non mi mostro
non vorrei che la lunga mia figura
spingesse i bimbi a provare sgomento.
Un’auto si avvicina con i fari
puntati verso un efebo slanciato,
una mano fa un cenno di richiamo
e il figlio della luna sale a bordo.
Notturno appuntamento col destino,
quanto lontano andrà la loro corsa?
Certo col mio ronzino non li posso
seguire! Vai, fanciullo, anima pura
vai per il tuo tracciato della notte
accanto ai tuoi compagni di ventura!
Quella carrozza di vetro e lamiere
che con gesto deciso ti ha raccolto
e non si ferma ai segnali d’arresto
forse trasporta personaggi arditi,
monaci combattenti o messaggeri
con un lasciapassare altolocato…
Lode alla vostra corsa, allora, amici,
all’anima che osa, al duro fato
che avete scelto, valorosi ignoti,
senza paura in questo mondo nuovo
dove un po’ sbigottito ora mi muovo.
Se il mio cavallo non vi tiene dietro
è perché ho altrimenti da guardare:
diverse le virtù da riverire,
altre le verità da rivelare
a passo di cavallo, eh Ronzinante,
incoronato di solennità,
che trotti lento nella notte oscura?
Ma a un tratto il buio si fa scintillante:
brillante come lucida saetta
lo zolfo delle insegne mi rivela
di colpo una bellissima figura
ferma sul marciapiede come statua,
la creola principessa dell’Etiopia
la regina di Saba, ebano e oro!
Do di freno alla mia cavalcatura
mi disarciono con slancio elegante
e le rivolgo tosto la parola:
“Da dove provenite, o mia Signora,
brunita ed aggraziata meraviglia,
non si confà la strada ad ospitarvi…
Dite se e come potrei mai aiutarvi,
chiedete e quanto posso vi darò!”
“Cinquanta in bocca, normale fa ottanta
e cento dietro sempre con il guanto”,
mi risponde l’esotica pulzella.
Io mi vergogno, ma non ho capito.
Non posso allontanarmi come un sordo,
provo a ripresentare la mia offerta:
“Vi offro la mano mia salda e possente,
dama africana di immenso lignaggio
ma mi sfugge la chiave dell’idioma
da voi parlato; svelate pertanto
la chiara grazia della vostra lingua
ed io vi porgerò tutto il mio braccio”.
“La lingua son cinquanta, ti ho già detto
ma no fist fucking, bello, niente braccio”.
E poi è accaduto il più tremendo incanto…
Nei sogni delle Indie, a Trebisonda,
là dove il sole matura dei frutti
di forme e di dolcezze sconosciute
e la luna è più grande di un veliero
e l’oceano trabocca di sirene,
là dove fantasia non ha l’uguale,
né alcunché che la freni, in tutto il mondo,
neanche là si produsse un tal portento!
Quella bruna Cleopatra si accostò
di un passo a me; un sorriso disarmante
brillava sul suo corpo di gigante
ben raro in donna di tanta bellezza.
Un succinto abituccio la copriva
filato in oro fino e perle rare
eppure corto e stretto come certo
non si addirebbe a una nobile dama:
ma tanto pura era la sua sembianza
che si ammendava di ogni stravaganza.
La bella afferrò i lembi della veste
di qua e di là con le sue lunghe mani
e in un sol movimento repentino
come un sipario li divaricò
mostrando le sue grazie naturali:
ne balzò fuori un membro sì asinino
che anche il mio Ronzinante ebbe spavento
e partì in un galoppo da campione
trascinandosi dietro il suo padrone.
Ora, il mio ragionare non si placa
se non pensando ad un malvagio scherzo
di incantatori dalla cruda beffa,
come quando la bella del Toboso,
la Dulcinea che tanto ebbi a servire,
fu trasformata per il mio dileggio
in contadina rozza e assai volgare.
Il Male che oltrepassa luoghi ed ere
e si ripete a circolo, figura
tanto cangiante eppur fissa e perenne
come me stesso dentro l’armatura,
il Male che riflette nel suo ghigno
tutta l’umanità che non ha cura,
ha replicato quinci il suo copione.
Potessi, alla terribile legione
dei demoni cornuti e sputafuoco,
dare definitiva punizione!
Per trovare la pace, finalmente,
per vedere ultimata la missione
che dall’alto mi venne destinata.
Ma così non sarà, mio Ronzinante,
fedele amico, nobile animale,
mia statua equestre di muscolatura,
maestoso, senza un’ombra di paura…
Tu mi accompagni, io ti proteggerò
potrai mangiare la migliore biada,
anzi… li vedi al bordo della strada
quei ciuffi d’erba in mezzo alle carrozze?
Ti meriti una sosta al ristorante!
Sorrido della mia graziosa celia
e guardo il buon cavallo che si nutre.
Ancora non lo so, né saprò mai
dove il destino mi ha catapultato,
non resta che scherzare e battagliare,
ormai sarei perfino rassegnato,
se questo verbo avesse per me un senso.
In questa terra niente mi somiglia
e tuttavia continuo la mia impresa
perché quello che sono l’ho ben saldo:
non mischio somiglianza a identità.
Ma quel che vale per l’anima umana
può ben trarre in inganno su altre cose.
Esempio: queste lande in cui mi aggiro
son colme di stranissime vetture
che per analogia chiamai carrozze.
Non è preciso, però, non è vero.
Sono in realtà minuscoli abitacoli
che ad ogni ora riempiono le strade
sia silenziose e ferme in lunghe file
sia roboanti con persone dentro.
In questa guisa corrono più forte
di ogni cavallo, anche di una biga,
e di notte si accendono di luci.
Vuote son ferme e fredde, dure e chiuse
hanno vetri che mostrano un interno
sinceramente privo di attrattive.
Forse sono creazioni del Maligno,
“macchine”, allora, ecco un nome adatto…
Mentre decifro a poco a poco tutto,
il Cielo nuovamente mi comanda
di riparare un torto, e guarda caso
è proprio su una macchina nefanda!
Si sta svolgendo una colluttazione,
un uomo schiaccia il capo ad un fanciullo
che riconosco: ha il nobile sembiante
dell’efebo slanciato… Io già ti vidi,
ardito giovinetto, già all’inizio
di questo mio ritorno all’avventura!
Là dove prima viaggiavi nel lusso
di una gran compagnia di altolocati
ora sei in mano di un losco bandito
che suda e geme e ti affossa il bel viso.
Ma – bizzarria! – la macchina è la stessa.
Un altro inganno del padre del Male…
Finale di partita, mascalzoni!
Con rincorsa furiosa do di stocco
contro la brutta cosa di lamiera.
“Cazzo fai? Vuoi sfasciarmi la portiera?
‘Sto deficiente… Mo’ scendo e ti schianto”.
Nuovamente mi lancio a un altro attacco,
ma neanche ora riesco a fare breccia
la macchina è più dura dell’acciaio;
però sei in salvo, limpida creatura,
più non temere, sto per liberarti.
Allora alza il bel capo il giovinetto
forse vuol dirmi “grazie”, o forse “aiuto!”,
agita il pugno, non riesco a sentire,
esprime tutto il suo onore ferito…
“Ma guarda questo pezzo di cretino…
e lasciami finire il mio pompino!”.
Oscena anima umana, acre natura,
che in nome di un effimero piacere
rinnega un cavaliere di ventura!
La delusione, figlia del Demonio,
arriva ratta e ignobile a sfiorarmi.
Ma non son nato, io, per scoraggiarmi
e scaccio forte l’amaro pensiero,
e in groppa a Ronzinante mi allontano
verso i miraggi del bello e del vero.
Il sogno non mi lascia, non demorde:
a colpi di fendente nella notte
inseguirò visioni straripanti
annienterò i rimorsi ed i rimpianti
sarò cantore degli amori puri.
Crolla il teatro ma che me ne importa,
fedele al sogno mio che mi ha redento
a un’illusione di carne e di fuoco
riparatrice dei mondani inganni,
io son tornato e ancora tornerò –
senza corpo a scornarmi con il vento.
 
Anna Lamberti Bocconi


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