Antonio Tabucchi - perchè uno scrive III
Julio Monteiro Martins - In “Autobiografie altrui” c’è sempre la presenza dell’inconscio, dei sogni, come una forza potente legata alla creatività. Nel tuo processo creativo personale, com’è questa tua forza dell’inconscio e com’è quest’altro io che ci abita?
Antonio Tabucchi – È un universo in sospensione, naturalmente, in cui non si è più tanto con i piedi per terra ma non si è ancora passati al mondo propriamente dei sogni, quello che viene definito lo spazio onirico e che poi eventualmente uno poi racconta la mattina alla propria moglie o allo psicanalista se ci crede. È quella cosa che Eugenio Gozzi chiamava “insognar”, che è proprio un “intersogno”, un trasognare, diremmo in italiano.
Si tratta cioè di stare in quello spazio a mezz’aria in cui si sta formando qualcosa che viene dal reale, inteso come realtà fattuale ma anche come qualcosa che è dentro di noi che è ugualmente reale, che è come se si cristallizzasse, se si coagulasse in qualcosa che magari a volte assume anche una forma narrativa – non è detto che in me o in chi esprime questo stato in una formulazione che poi si racconta, diventi poi narrazione – ma può assumere anche altre forme espressive, com’è noto. In questo caso, la trasposizione in parole, può ordinare logicamente, secondo una formulazione narrativa o diegetica, un qualcosa che di per sé sarebbe come una gelatina… anche perché il fatto di raccontare a noi stessi noi stessi, ci fa capire quello che è il caos, perché, a ben vedere, la vita non è formulata in termini narrativi, perché noi la vita la viviamo, e la vita è qualcosa che succede, accade. La vita diventa comprensibile quando noi ce la raccontiamo, altrimenti non la capiamo: per capire noi dobbiamo formulare in termini narrativi, altrimenti non capiamo. Dobbiamo ordinare il caos, e lo ordiniamo raccontando.
Antonio Tabucchi
tabucchi alla Sagarana
Antonio Tabucchi – È un universo in sospensione, naturalmente, in cui non si è più tanto con i piedi per terra ma non si è ancora passati al mondo propriamente dei sogni, quello che viene definito lo spazio onirico e che poi eventualmente uno poi racconta la mattina alla propria moglie o allo psicanalista se ci crede. È quella cosa che Eugenio Gozzi chiamava “insognar”, che è proprio un “intersogno”, un trasognare, diremmo in italiano.
Si tratta cioè di stare in quello spazio a mezz’aria in cui si sta formando qualcosa che viene dal reale, inteso come realtà fattuale ma anche come qualcosa che è dentro di noi che è ugualmente reale, che è come se si cristallizzasse, se si coagulasse in qualcosa che magari a volte assume anche una forma narrativa – non è detto che in me o in chi esprime questo stato in una formulazione che poi si racconta, diventi poi narrazione – ma può assumere anche altre forme espressive, com’è noto. In questo caso, la trasposizione in parole, può ordinare logicamente, secondo una formulazione narrativa o diegetica, un qualcosa che di per sé sarebbe come una gelatina… anche perché il fatto di raccontare a noi stessi noi stessi, ci fa capire quello che è il caos, perché, a ben vedere, la vita non è formulata in termini narrativi, perché noi la vita la viviamo, e la vita è qualcosa che succede, accade. La vita diventa comprensibile quando noi ce la raccontiamo, altrimenti non la capiamo: per capire noi dobbiamo formulare in termini narrativi, altrimenti non capiamo. Dobbiamo ordinare il caos, e lo ordiniamo raccontando.
Antonio Tabucchi
tabucchi alla Sagarana
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