martedì 10 ottobre 2017

si era alzato un po’ per magia e un po’ per le lunghe sedute di allenamento



Anni più tardi, poco prima di trasferirmi a Roma, quando ormai da tempo non ero più complessata riguardo al mio aspetto fisico in generale, e al mio culo in particolare, quando anzi era diventato la parte del mio corpo di cui andavo più fiera, si era alzato un po’ per magia e un po’ per le lunghe sedute di allenamento, mantenendo la sua forma a pera e la sua ampiezza, vidi Paola di spalle che baciava il suo fidanzato – l’ultimo dei cinque dell’epoca del liceo, il ragazzo più ambito di Ciambata, con cui la relazione, a differenza delle quattro precedenti, durava da un tempo infinito e, non essendosi trasformata in un fidanzamento ufficiale, sembrava prolungare all’infinito la loro adolescenza. La vidi persa in quel bacio, seduta sulle sue ginocchia, come un’adolescente.
 
Il trasporto di Paola era tale, che pur essendo conosciuta come una ragazza ammodo – sarebbe stato più corretto pensare donna, ma nessuno ormai, tra quelli della mia generazione chiamava gli altri uomo o donna, non lo avremmo fatto nemmeno a quarant’anni, a me sarebbe successo solo sul lavoro, in riferimento a qualcuno che veniva ammazzato o commetteva un crimine –, i suoi movimenti, il suo eccessivo ardore, che io decifrai come una maniera per controbilanciare l’incapacità del suo compagno di prendere un impegno, mettevano a disagio la gente intorno. Non me, io non ero a disagio. Pensavo, piuttosto, che come la sua relazione, nemmeno il suo sedere sembrava soggetto alle leggi del tempo. Mentre il ragazzo – il più ambito di Ciambata, un uomo, definitivamente un uomo dal punto di vista anagrafico, che non si sapeva bene perché non volesse prendere un impegno – affondava nei glutei di Paola le dita, era come se ne tastassi io stessa la consistenza. Avevo appena lasciato Martina, avevamo pensato di salutare Paola prima che lei se ne andasse, ma dopo qualche minuto in cui il bacio con il ragazzo più ambito di Ciambata non sembrava calare di intensità, anzi, diventava sempre più impetuoso, più libero dalle restrizioni sociali a cui l’avrebbe dovuto costringere il luogo e l’ora – eravamo al Bar del Corso, non doveva essere più tardi delle otto, era primavera, c’era ancora il sole –, avevamo desistito.
 
Io, invece di tornare a casa, avevo attraversato la terrazza piena di gente del bar e mi ero fermata in piedi sotto l’arco di ferro battuto d’entrata. Da quel lato del corso di Ciambata, le case avevano le fondamenta in un burrone e la terrazza impediva che, tra il bar e il basso muretto di pietra che delimitava il ciglio della strada, ci fosse il vuoto. Stranamente, nessuno ridacchiava o faceva commenti mordaci su Paola, nessuno mostrava sdegno per il bacio spropositatamente appassionato che stava scambiando. Le sedie erano più moderne e resistenti di quelle che avevano popolato la terrazza durante la mia infanzia, la mia adolescenza e, forse, fino ad appena due primavere prima. Le vecchie sedie, di fili di plastica intrecciata, arancione, mi ricordavano un’estate infinita
 
Marco Gigliotti


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