lunedì 6 febbraio 2017

Ho raccontato. Ho raccontato.

Javier Marias

di  sicuro era soltanto questo ciò che io mi proponevo, uscire dal buio e  smettere di tenere un segreto o conservare un mistero, forse anch'io  ho a volte desideri di chiarezza e probabilmente di armonia.
 Ho  raccontato.
 Ho raccontato.
 E raccontando non ho provato la sensazione  di uscire dal mio incantamento da cui non sono ancora uscito e forse  non uscirò mai, ma di cominciare a mescolarlo con un altro meno  tenace e più benevolo.
 
 Colui che racconta di solito sa spiegare bene  le cose e si sa spiegare, raccontare è come convincere o farsi capire  o far vedere e così tutto può essere compreso, anche le cose più  infami; tutto perdonato quando c'è qualcosa da perdonare, tutto  tralasciato o assimilato e anche compatito, questo è avvenuto e  bisogna conviverci quando sappiamo che è stato, trovargli un posto  nella nostra coscienza e nella nostra memoria che non ci impedisca di  continuare a vivere perché è accaduto e perché lo sappiamo.
 
  L'accaduto è perciò sempre molto meno grave dei timori e delle  ipotesi, delle congetture e delle supposizioni e dei brutti sogni,  che in realtà non introduciamo nella nostra conoscenza ma che  mettiamo da parte dopo averli sofferti o dopo averli considerati  momentaneamente e perciò continuano a suscitare orrore a differenza  degli eventi, che diventano più lievi per la loro stessa natura,  cioè, appunto perché sono dei fatti: dato che ciò è successo e lo so  ed è irreversibile, ci diciamo rispetto a quelli, devo spiegarmelo e  farlo mio o fare sì che me lo spieghi qualcuno, e la cosa migliore  sarebbe che me lo raccontasse esattamente chi si è incaricato di  farlo, perché è lui che sa.
 
 Ma se si racconta si può perfino entrare  nelle grazie, questo è il pericolo.
 La forza della rappresentazione,  immagino: per questo ci sono accusati, per questo ci sono nemici che  si assassinano o si giustiziano o si linciano senza lasciarli dire  una sola parola - per questo ci sono amici che si mandano in esilio e  si dice: «Non ti conosco», o non si risponde alle loro lettere -,  affinché non si spieghino e possano all'improvviso entrare nelle  grazie, quando parlano mi calunniano ed è meglio che non parlino,  anche se nel tacere non mi difendono.
[...]
E' chi racconta che decide di farlo e anche di imporlo e  chi si scopre o confessa e decide quando, di solito quando è ormai  troppo grande la fatica che portano il silenzio e l'ombra, è l'unica  cosa che spinge a volte a raccontare i fatti senza che nessuno lo  chieda né nessuno se lo aspetti, non ha niente a che vedere con la  colpa né con la cattiva coscienza né con il pentimento, nessuno fa  niente credendosi miserabile nel momento di farlo se sente la  necessità di farlo, soltanto dopo arrivano il malessere e la paura e  non vengono poi molto, è più malessere o paura che pentimento, o è  più stanchezza.

Domani nella battaglia pensa a me
Javier Marias     

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