domenica 13 marzo 2016

Stasera parlo di te


Michel Thion

Stasera parlo a te.

Sì, a te soltanto.

Sono poeta, lo sai, ed è ciò che fanno i poeti. Non parlano alle folle.

No, un poeta parla a un umano per volta, sensibile.

Ciascuno di noi, ciascuna di noi, è solo come un’isola.

Tu sei un’isola, io sono un’isola, siamo soli al di là dell’orizzonte.

Ma so che sei qui.

Io ti so.

E tu conosci me la tua isola così vicina.

Oppure non mi conosci e mi sai ugualmente. Tu sai la mia voce.

Io sono, noi siamo isole che si scambiano che viaggiano.

Parlandoti, viaggio immobile verso di te.

Fatto sta che queste isole sono riunite dal mare e il mare è il sentiero che tutti

Percorriamo.

Se tu ci fai caso, noi, gli umani siamo un arcipelago.

Parentesi di cultura generale: Arcipelago, n.m. gruppo d’isole in uno spazio geografico discontinuo.

Tu ed io siamo l’arcipelago d’un possibile, il ricordo d’un futuro possibile.

Qual è quindi questo mare che ci separa e ci unisce?

Ti dirò, è l’oceano della tua lingua.

La lingua, questo spazio discontinuo, il luogo degli scambi incerti, parcellari, maldestri, talvolta fuggenti, talvolta brutali.

È il nostro spazio comune, con i suoi vuoti e le sue montagne.

Piena di vuoti è la lingua. È il suo paradosso e la sua bellezza.

«Laddove non c’è niente, legga che l’ amo», diceva Diderot in una lettera d’amore a Sophie Volland.

Felice la donna alla quale si scrivevano cotante meraviglie.

Ti parlo e, così facendo, viaggio verso di te.

E negli incavi, e nei nonnulla della lingua, vi è amore e smarrimento, vi sono significati e ambiguità, vi sono vertigini e notti sibilline, nei vuoti della lingua vi è l’essenziale.

Le parole sono onde, maree, talvolta tempeste, la risacca del pensiero.

E io sono un’isola poeta.

Da tempo, cerco ciò che siamo e ne so ben poco.

So soltanto oggi che siamo esseri parlanti e deliberanti, e che ridiamo insieme.

Deliberanti è importante.

La parola scambiata vale di più della parola proferita, anche se, al cuore del nostro dramma d’umano-isola, non si ha talvolta altra scelta che gridare.

Ma l’uomo che grida sarà ininterrottamente ricoperto da altre grida, poiché il mondo è fatto in tal modo, che sempre un uomo grida.

L’uomo che fa silenzio non può essere ricoperto di silenzio, e ciascuno sentirà il proprio silenzio attorno.

E il silenzio è il regalo che ciascuno fa all’altro affinché le parole siano davvero scambiate.

Il mio silenzio non è vuoto, è riempito della tua parola, è lo spazio per il tuo pensiero.

La discussione è piena di silenzi, affinché ciascuno, ciascuna, faccia la propria parte al banchetto della parola, affinché i flutti, i marosi della parola ondeggino verso altre isole.

E poi, quando la mia memoria è a brandelli, il silenzio ne è l’archeologo.

Un poeta offre quel precipuo silenzio.

Qui inserire tre punti di sospensione.

In greco «Poïesis» è l’azione di fare in funzione di un sapere.

Che cosa fa un poeta, con il suo sapere intuitivo della lingua?

Scrive con una gomma invece di una matita.

Disegna un mormorio nel cuore del chiasso.

Lascia un posto a tavola per colui che leggerà.

Bisbiglia nella nebbia.

Soffia sulle cicatrici.

Dorme col sonno del non dormiente.

In ogni città, abita in via del silenzio.

Sa che la notte non oscura il giorno, anzi lo prolunga. Più tardi,

lo annunzierà.

Vi è la poesia sull’orlo delle labbra.

Suona il blues con corde d’impiccati sulla chitarra del diavolo.

Condivide il vino della cocciutaggine.

Pian piano diventa trasparente.

Vuole il risveglio dei sensi.

Scrive poesie a ritarda mento.

Beve il respiro del sole. Lo guarda di fronte, ne diventa cieco per un istante

rosso sangue, e poi, nel momento in cui la vista a tratti torna, per lampi oscuri,

lotta per tenere gli occhi aperti e scrive in mezzo alle lacrime.

«Il mondo intero è un palcoscenico» ci confida Jacques il melanconico, il

palcoscenico d’un teatro d’ombre, la scena primitiva della caverna di Platone.

Ma nel teatro d’ombre, ciò che conta è l’ombra, è l’ombra che parla.

Mi ricordo di Giono:

«Costruiscono con pietre e non vedono che ciascuno dei loro gesti per posare la pietra nel mortaio è accompagnato da un’ombra di gesto che posa un’ombra di pietra in un’ombra di mortaio. Ed è l’edificio d’ombra che conta».

Allora ti scrivo poesie d’ombra.

Affinché la mia parola lasci una traccia sull’acqua.

Qui, collocare un silenzio inquietante, interrogativo, perplesso persino.

Altri tre punti di sospensione.

Poesia che sorge o poesia in goccia a goccia, che importa ciò che fa un poeta.

Parla in silenzio.

La sua parola disegna il silenzio come il pennello d’inchiostro nero disegna la neve.

Mi ricordo di Antonio Tabucchi:

«Anche voi dovete parlare. È per questo che la natura ha fatto di noi delle umane creature. Se voi dite foss’anche una volta no, la vostra natura umana sarà salva. Se voi rimanete silenziosi avrete riempito la vostra bocca di terra. Non sarete che orecchie che ascoltano. Quindi è proprio quel che ci si aspetta di voi».

Ascolta il paradosso del poeta: tacere non è far silenzio.

Il poeta fabbrica silenzio quando parla.

Ciascuno di noi è un’isola, uno scoglio di corallo bianco e purpureo che racchiude un vulcano, forse spento, forse… ma un vulcano giunge dal centro della Terra e il centro della Terra è la nostra culla comune.

E se qui ognuno è il barbaro dell’altro, non dimenticare che ognuno è prima di tutto il proprio barbaro.

Mi ricordo Henri Michaux, nel 1943, ma potrebbe essere oggi.

«Dentro è il fumo, fuori è il furore.

Si convocano le fiamme per la distruzione degli edifici. Si convoca la viltà umana per la distruzione delle fierezze. Si convoca la stoltezza e la volgarità in uno smisurato composito attrezzo. E sodo lavora questo attrezzo e con insolenza qui e là con delle duttilità poi di nuovo sodo e impudente, sfiancando la resistenza e sviluppando uno sconfinato imbroglio.

Ma duro per chi lo subisce. E chi non lo subisce?

il lavoro scava, lo sputo anche.

Fin dove cadrai?

Fin dove ti piegherai, popolo irriconoscibile?»

Parlo a te soltanto.

Ti offro silenzio e lentezza affinché prendiamo il tempo di pensarci.

Pensa a questo, che non sentiamo l’uccello camminare nella neve ma al mattino

si vede eccome che è venuto.

La danza del silenzio è il bisbiglio della nostalgia. Fatto sta che occorrono

quattro sospiri per fare un silenzio.

Prima di riprendere il cammino della parola, vorrei dire agli amici che ci

accolgono qui, vi guardo in silenzio e penso alla dolcezza che condividiamo. Davvero il nostro incontro ha avuto luogo nel giardino dei silenzi, all’ombra delle lacrime sussurranti.

I nostri fratelli gli erranti, furtivi come l’ombra d’uno sguardo, hanno ripreso la strada.

Il sentiero è la loro casa.

Possiedono la sottile arte del sorriso nascosto,

rara è la loro parola, ma hanno il dire seminato di luci cangianti e gravi, parlano

con bocca di luce.

Sono la nostra leggerezza, il nostro abbandono al mondo.

Ed è bene sapere che, quando le case di pietra si chiudono col lucchetto le une dopo le altre, i nostri fratelli gli erranti c’insegnano a costruire case di vento, aperte a ciascuno e a ciascuna. Ed io, isola-poeta, le abito con queste poesie d’ombra e di vento che ti dedico stasera.

Allora, pensaci, nella tua solitudine condivisa:

Ti dico che gli abissi ci abitano.

Poiché senza il silenzio, la parola è una fredda increspatura dell’atmosfera.

Poiché senza il silenzio, la parola è un omicidio.

(per l'anniversario della rivista Cassandra)


  Michel Thion

Fili d'aquilone link esterno



Nessun commento:

Posta un commento

commenta questo post

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

home