Caro amico,
la sua lettera ha suscitato in me una vera emozione perché, attraverso quella lettera, ho rivisto me stesso a quattordici o quindici anni, nella grigia Lima della dittatura del generale Odría, esaltato dall’illusione di potere, un giorno o l’altro, diventare scrittore, e depresso dal non sapere in quale direzione muovermi, da come cominciare a cristallizzare in opere quella vocazione che sentivo come un mandato perentorio: scrivere storie che abbagliassero i lettori come io ero stato abbagliato da quelle degli scrittori che cominciavo a collocare nel mio pantheon privato: Faulkner, Hemingway, Malraux, Dos Passos, Camus, Sartre.
Molte volte mi è passata per la mente l’idea di scrivere a qualcuno di loro (erano tutti vivi, allora) e di chiedere un orientamento su come si diventa scrittore. Non ho mai osato farlo, per timidezza, o, forse, a causa di quel pessimismo inibitorio – a che scopo scrivere, se so che nessuno si degnerà di rispondermi? – che di solito frustra la vocazione di molti giovani nei paesi in cui la letteratura non significa granché per la maggior parte della gente e sopravvive ai margini della vita sociale, come un’occupazione quasi clandestina.
Lei non ha provato quella paralisi , dal momento che mi ha scritto. È un buon inizio per l’avventura che le piacerebbe intraprendere e da cui si aspetta – ne sono certo, anche se nella sua lettera non me lo dice – molte meraviglie. Mi azzardo a suggerirle di non contarci troppo, e di non farsi troppe illusioni a proposito del successo. Non c’è motivo che lei non lo ottenga, naturalmente, ma se sarà costante, scriverà e pubblicherà, ben presto scoprirà che i premi, il riconoscimento del pubblico, le vendite dei libri, il prestigio sociale di uno scrittore hanno un percorso sui generis, quanto mai arbitrario, perché talvolta evitano tenacemente coloro che più li meriterebbero, e assediano e opprimono quelli che li meriterebbero molto meno. Perciò chi individua nel successo lo stimolo essenziale della propria vocazione, probabilmente vedrà fallire il proprio sogno e confonderà la vocazione letteraria con la vocazione per gli splendori e i benefici economici che la letteratura concede ad alcuni scrittori (molto pochi). Sono cose diverse.
a vocazione mi sembra il punto di partenza irrinunciabile per parlare di ciò che costituisce il suo stimolo e la sua preoccupazione: come si riesce a diventare scrittore. è una faccenda misteriosa, certo, avvolta da incertezze e soggettività. (…) Quale origine ha quella disposizione precoce a inventare esseri e storie che è il punto di partenza della vocazione di scrittore? Credo che la risposta sia: la ribellione. Sono convinto che chi si abbandona a elucubrare vite diverse da quella che vive nella realtà manifesta in questo modo indiretto il suo rifiuto e la sua critica della vita quale è, del mondo reale, e il suo desiderio di sostituirli con quelli che fabbrica con l’ immaginazione e con i desideri. Perché mai dovrebbe dedicare il proprio tempo a qualcosa di così evanescente e chimerico – la creazione di realtà fittizie – una persona intimamente soddisfatta della realtà reale, della vita così come la vive? Ebbene: chi si ribella contro questa vita servendosi dell’ espediente di creare un’ altra vita e altre persone può farlo spinto da innumerevoli ragioni. Altruistiche o ignobili, generose o meschine, complesse o banali. L’ indole di questa radicale messa in discussione della realtà reale che, secondo la mia opinione, si ritrova al fondo di ogni vocazione di scrittore di storie, non ha nessuna importanza. Quel che conta è che quel rifiuto sia tanto radicale da alimentare l’ entusiasmo per quella operazione – donchisciottesca quanto scagliarsi lancia in resta all’ assalto di mulini a vento – che consiste nel sostituire illusoriamente il mondo concreto e oggettivo della vita vissuta con quello sottile ed effimero della finzione. Tuttavia, sebbene sia chimerica, questa impresa si realizza in modo soggettivo, figurato, non storico, e finisce per assumere effetti di grande portata nel mondo reale, cioè nella vita delle persone in carne e ossa. Questo contrasto con la realtà, che è la segreta ragione d’ essere della letteratura – della vocazione letteraria -, fa sì che questa ci offra una testimonianza unica su una determinata epoca. La vita descritta dalle opere di finzione – soprattutto, da quelle meglio riuscite – non è mai quella che realmente hanno vissuto coloro che le hanno inventate, scritte, lettere e celebrate, ma quella fittizia quella che hanno dovuto creare artificialmente perché non potevano viverla nella realtà, e perciò si sono rassegnati a viverla soltanto nel modo indiretto e soggettivo in cui si vive l’ altra vita, quella dei sogni e delle finzioni. La finzione è una menzogna che racchiude una verità profonda: è la vita che non è stata, quella che uomini e donne di un’ epoca determinata avrebbero voluto e non hanno avuto, e perciò sono stati costretti a inventarla. Non è il ritratto della Storia, piuttosto ne è la controcopertina o il risvolto, quello che non è successo, e appunto per questo ha dovuto essere creato dalla fantasia e dalle parole per mitigare le ambizioni che la vita vera era incapace di soddisfare, per colmare i vuoti che donne e uomini scoprivano attorno a sé e cercavano di popolare con i fantasmi che loro stessi creavano. Quella ribellione è del tutto relativa, naturalmente. Molti di coloro che in qualche modo scrivono storie non sono neppure coscienti di quella ribellione e, forse, se assumessero coscienza dell’ essenza sediziosa della loro vocazione a fantasticare si sentirebbero sorpresi e spaventati, poiché nella loro vita pubblica non si considerano assolutamente segreti dinamitardi del mondo in cui vivono. D’ altra parte, si tratta di una ribellione abbastanza pacifica: in effetti, che danno può arrecare alla vita reale contrapporle le vite impalpabili delle opere di finzione? Quale pericolo può rappresentare per la vita reale una simile concorrenza? A prima vista, nessuno. Si tratta di un gioco, non è vero? E di solito i giochi non sono pericolosi, purché non vogliano travalicare lo spazio che compete loro e intrecciarsi con la vita reale. Ebbene, quando qualcuno – per esempio, don Chisciotte o madame Bovary – si sforza di confondere la finzione con la vita, e fa in modo che la vita sia come appare nelle storie di finzione, il risultato finisce di solito per diventare drammatico. Chi agisce in questo modo, paga il prezzo di tremende delusioni. Tuttavia, il gioco della letteratura non è innocuo. Prodotto di un’ intima insoddisfazione nei confronti della vita quale essa è, la finzione è anche fonte di malessere e di insoddisfazione. Perché colui che, attraverso la letteratura, vive una grande finzione – come le due che ho appena citato, quella di Cervantes e quella di Flaubert – torna alla vita reale con una sensibilità molto più vigile di fronte ai suoi limiti e alle sue imperfezioni, reso cosciente da quelle magnifiche fantasie del fatto che il mondo reale, la vita vissuta, sono infinitamente più mediocri della vita inventata dai romanzieri. Quella inquietudine verso il mondo reale, che la buona letteratura alimenta, può in determinate circostanze tradursi anche in un atteggiamento di ribellione nei confronti dell’ autorità, delle istituzioni o delle consuetudini stabilite. (…). All’ inizio degli anni Sessanta, a Parigi, avevo un amico meraviglioso, José MarÀia, un ragazzo spagnolo, pittore e cineasta, che soffrì di questa malattia. Quando la tenia si insedia in un organismo diviene consustanziale con esso, se ne alimenta cresce e si rafforza a sue spese, ed è difficilissimo espellerla da quel corpo su cui si ingrandisce e che colonizza. José MarÀia dimagriva nonostante mangiasse e bevesse liquidi (latte, soprattutto) in continuazione, per placare l’ ansia dell’ animale alloggiato nelle sue viscere, perché altrimenti il suo malessere diventava insopportabile. Tutto quello che mangiava e beveva non era però per il suo gusto e per il suo piacere, ma per quelli della tenia. Un giorno, mentre stavamo conversando in un piccolo bistrot di Montparnasse, mi sorprese con questa confessione: – Facciamo molte cose insieme. Andiamo al cinema, alle mostre, nelle librerie, e discutiamo per ore e ore di politica, di libri, di film, di amici comuni. E tu credi che io stia facendo quelle cose come le fai tu, perché ti diverte farle. Ma sbagli. Io le faccio per lei, per la solitaria, per la tenia. è questa l’ impressione che sento: che tutto nella mia vita, adesso, io non lo viva per me ma per quell’essere che ho dentro di me, del quale ormai non sono altro che un servitore.
Mario Vargas Llosa
Lettere a un aspirante romanziere – incipit