domenica 13 settembre 2015

malattia e poesia


Malattia e poesia

La poesia francese, come ben sanno i francesi, è la poesia più alta del XIX secolo e nelle sue pagine e nei suoi versi sono in qualche modo prefigurati i grandi problemi che l'Europa e la nostra cultura occidentale si sarebbero trovate ad affrontare nel XX secolo e che rimangono da risolvere ancora oggi. I temi possono essere la rivoluzione, la morte, la noia e la fuga. Questa grande poesia fu scritta da un pugno di poeti e il suo punto di partenza non è Lamartine, né Hugo, né Nerval, ma Baudelaire. Diciamo che ha inizio con Baudelaire, raggiunge la sua massima tensione con Lautréamont e Rimbaud e finisce con Mallarmé. Naturalmente, ci sono altri poeti notevoli, come Corbière o Verlaine, e altri non trascurabili come Laforgue o Catulle Mendès o Charles Cros, e perfino qualcuno non del tutto disprezzabile come Banville. Ma la verità è che con Baudelaire, Lautréamont, Rimbaud e Mallarmé ce n'è già a sufficienza. Cominciamo da quest'ultimo. Voglio dire, non dal più giovane, ma dall'ultimo a morire, Mallarmé, che per soli due anni non conobbe il XX secolo. Ecco cosa scrive in «Brezza marina»
 
La carne es triste, ¡ay!, y todo lo he leìdo.
¡Huir! ¡Huir! Presiento que en lo desconocido
de espuma y cielo, ebrios los pàjaros se alejan.
Nada, ni los jardines que los ojos reflejan
sujetarà este pecho, nàufrago en mar abierta
¡oh, noches!, ni en mi lampara la claridad
desierta sobre la virgen pàgina que esconde su blancura,  
 
y ni la fresca esposa con el hijo en el seno.
¡He de partir al fin! Zarpe el barco, y sereno
meza en busca de exóticos climas su arboladura.
Un hastio reseco ya de crueles hanelos
aun suena en el ultimo adiós de los panuelos.
¡Quién sabe si los màstiles, tempestades buscando,
se doblaràn al viento sobre el naufragio, cuando
perdidos floten sin islotes ni derroteros!.
¡Mas oye, oh corazón, cantar los marineros
***

«La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri,
Fuggire! Laggiù, fuggire! Sento gli uccelli ebbri
di essere fra ignote spume e cieli!
Nulla, neppure i vecchi giardini riflessi dagli occhi
Tratterrà questo cuore che in mare s'immerge
O notti! neppure il chiarore deserto della lampada
Sul vuoto foglio protetto dal biancore
 
Né la giovane moglie che allatta il suo bambino.
Io partirò! Vapore che dondoli l'alberatura,
Leva l'àncora verso un'esotica natura!
Un Tedio, desolato da crudeli speranze,
Crede ancora all'addio estremo dei fazzoletti!
E forse, gli alberi delle navi, che invitano gli uragani
Sono di quelli che il vento piega sui naufragi
Perduti, senz'alberi, senz'alberi, né isole fertili...
Ma, O mio cuore, ascolta i canti dei marinai!»



 
Una bella poesia. Nabokov avrebbe consigliato al traduttore di non rispettare le rime, di renderla in versi liberi, di farne una versione «brutta», se Nabokov avesse conosciuto il traduttore, Alfonso Reyes, che per la cultura occidentale significa poco, ma che per quella parte della cultura occidentale che è la cultura latinoamericana significa (o dovrebbe significare) molto. Ma cosa voleva dire Mallarmé quando diceva che la carne è triste e che aveva letto tutti i libri? Che aveva letto fino alla sazietà e scopato fino alla sazietà? Che da un certo momento in poi ogni lettura e ogni atto carnale si trasformano in ripetizione? Che la sola cosa che gli rimaneva da fare era viaggiare? Che scopare e leggere, alla fine, diventa noioso, e che viaggiare è l'unica via d'uscita? Io credo che Mallarmé stia parlando della malattia, della battaglia che la malattia combatte contro la salute, due stati o due potenze, come volete, totalitarie; io credo che Mallarmé stia parlando della malattia rivestita dei panni della noia. L'immagine della malattia costruita da Mallarmé è, in realtà, per così dire intonsa: parla della malattia come rassegnazione, rassegnazione a vivere o rassegnazione a qualunque altra cosa. Come dire che sta parlando della sconfitta. E allo scopo di ribaltare la sconfitta vi oppone vanamente la lettura e il sesso, che sospetto, a maggior gloria di Mallarmé e per maggior perplessità di madame Mallarmé, per lui fossero equivalenti, altrimenti nessuno nel pieno possesso delle sue facoltà potrebbe dire che la carne è triste, così, in questo modo tassativo, che la carne è triste e basta, e che la petite morte, che in realtà non dura nemmeno un minuto, si estende a tutti i gesti dell'amore, che come ben si sa possono durare per ore e ore e farsi interminabili, insomma, un verso simile non stonerebbe nell'opera di un poeta spagnolo come Campoamor mentre stona invece nell'opera e nella biografia di Mallarmé, indissolubilmente unite, salvo in questa poesia, in questo manifesto cifrato, che solo Paul Gauguin prese alla lettera, perché è bene sapere che Mallarmé non ascoltò mai cantare i marinai, o se li ascoltò, non lo fece, di sicuro, a bordo di una nave dalla destinazione incerta. E tantomeno si può affermare che uno abbia già letto tutti i libri, perché anche ammesso che i libri finiscano non si finirebbe mai di leggerli tutti, cosa che Mallarmé sapeva bene. I libri sono in numero finito, gli incontri sessuali sono in numero finito, ma il desiderio di leggere e di scopare è infinito, travalica la nostra stessa morte, le nostre paure, le nostre speranze di pace. E che cosa rimane a Mallarmé in questa illustre poesia, quando non gli rimangono più, secondo lui, né la voglia di leggere né la voglia di scopare? Ebbene, gli rimane il viaggio, gli rimane la voglia di viaggiare. E questa è forse la chiave del delitto. Perché se Mallarmé fosse arrivato a dire che la sola cosa che gli rimane è pregare o piangere o diventare pazzo, forse avrebbe trovato l'alibi perfetto. Ma Mallarmé dice che la sola cosa che gli rimane è viaggiare, come se dicesse navigare e necessario, vivere non è necessario, massima che una volta sapevo citare in latino e che per colpa delle tossine viaggiatrici del mio fegato ho dimenticato, vale a dire, ed è lo stesso, che Mallarmé sceglie il viaggiatore a torso nudo, la libertà, anche quella a torso nudo, la vita semplice (ma non tanto semplice se grattiamo un po' la superficie) del marinaio e dell'esploratore, che oltre a essere un'affermazione della vita è anche un gioco costante con la morte e si colloca, in una scala gerarchica, sul primo gradino di un certo apprendistato poetico. Il secondo gradino è il sesso e il terzo sono i libri. Il che trasforma la scelta di Mallarmé in un paradosso o piuttosto in un ritorno, in un ricominciare da zero. E giunto a questo punto non posso, prima di tornare al nostro ascensore, non pensare a una poesia di Baudelaire, padre di tutti quanti, nella quale si parla del viaggio, dell'entusiasmo giovanile per il viaggio e dell'amarezza che ogni viaggio lascia alla fine nel viaggiatore, e penso che il sonetto di Mallarmé è forse una risposta alla poesia di Baudelaire, una delle risposte più terribili che io abbia mai letto, quella di Baudelaire, una poesìa malata, una poesia senza uscita, ma forse la poesia più lucida di tutto il XIX secolo.

Roberto Bolaño *** Letteratura + malattia = malattia


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