lunedì 3 luglio 2017

non voglio nulla da voi, assolutamente nulla


Grazia Deledda - lettera a Stanis


Nuoro, 14 settembre 1892
 
Mio caro Stanis, non corrugate, vi prego, la vostra bionda fronte nel ricevere quest'altra mia. Non vengo a parlarvi d'amore, né a chiedervi nessuna cosa. Come vi ho scritto, non voglio nulla da voi, assolutamente nulla. Non voglio neppure che mi rispondiate. È certo che voi non pensate a scrivermi, ma, badate, se per un caso straordinario vi saltasse l'idea di farlo vi avverto che respingerò la vostra lettera, senza averla neppure aperta.
 
Ma perché dunque vi scrivo? E chi lo sa? Vi scrivo così, perché sono annojata e non so come passare l'ora, perché sono sicura che voi gradirete la mia lettera, perché so che, dopo che io ho battuto la fronte in terra, davanti a voi, mi avete ridonato tutta la vostra stima... che io invece credo di non meritare più.
 
E poi, nella mia ultima, mi sono scordata di darvi l'addio per sempre. Vi chiedo umilmente perdono, sul serio, se terminando la mia ultima tragica lettera vi ho dato del tu, e se mi sono lasciata scappare qualche frase irriverente nell'intima familiarità con cui vi ho scritto. Vi assicuro che non lo feci apposta. Percepii questa mancanza solo quando mi fui calmata, cioè quando la lettera viaggiava lontana, e vi giuro che me ne pentii assai assai, ma invano. Ora vi chiedo perdono. Io ho nutrito per voi, sempre, un rispetto quasi religioso. Più che un giovinotto, vi ho sempre considerato come un signore attempato, non so, e vi son dei momenti in cui mi meraviglio fra me stessa del mio ardire a innamorarmi di voi, e soprattutto del coraggio che ho avuto a confessarvi il mio amore. Perché in quei momenti siete per me un signore che ho veduto solo tre volte, alla sfuggita, davanti al quale ho arrossito di timidezza e di rispetto, e che spero di non riveder più mai.
 
Ad ogni modo io vi prego di non credermi maleducata se, dietro il vostro ultimo bigliettino pieno di acutissimi e garbati insulti, che non avevo meritato, e del quale non vi serbo alcun rancore, mi sono lasciata andare a qualche frase veemente e che può avervi offeso. Vi assicuro che non sono mal educata. Mia madre è ignorante, è vestita in costume, sapete? ma mi ha educato come la più aristocratica signorina, ed io non ricordo di aver mai detto una cattiva parola a nessuno.
 
Chi è che ha scritto il vostro medaglio nella "Vita Sarda"? Non mi è piaciuto punto. Poteva essere disegnato meglio, e son quasi offesa nel vedere il nome di Pischedda accanto al vostro. A proposito di celebrità ora voglio dirvi una cosa. Dopo avervi sentito esclamare: mi fate spavento coi vostri sogni mostruosi! ho provato una strana sensazione, qualcosa come un getto di acqua fredda sul fuoco che io credevo sacro. Non si è spento subito però questo strano fuoco che mi consumava ma va spegnendosi lentamente, giorno per giorno, come il sole sull'orizzonte della stagione che cade. Lacerate pure, se non l'avete già fatto... le mie ultime lettere in cui vi scrivevo: diventerò grande.
 
Ora son sicura che non farò più nulla. La stanchezza mi vince, mi domina a poco a poco, con un torpore accidioso, forse l'influenza dell'autunno che annebbia la ragione, come disse Giacosa, forse... chissà, non so spiegarmi bene, ma ad ogni modo credo che non vi farò più spavento.
 
Vedete: i migliori giornali, dalla "Natura ed Arte" alla "Vita Moderna" mi hanno spalancato le loro porte: ho una falange di ammiratori ed amici; ed editore mi ha scritto chiedendomi un romanzo di costumi sardi... ma io non provo più alcuna soddisfazione, alcun palpito: ho risposto all'editore: fra due anni! ma credo di non arrivare più a scrivere alcun romanzo, nulla. Se vorrei sento che potrei fare quanto tutti i piccoli novellieri sardi uniti insieme, ma il sonno invade il mio pensiero, il crepuscolo si addensa nella corta giornata della mia intelligenza. Forse siete voi la causa di questo cambiamento; non oso assicurarlo, ma ne dubito: non ve rimprovero, anzi vi ringrazio: soffrivo troppo per la mia pazza ambizione, nel cui fondo c'era la più pazza idea di poter un giorno, io ! ! ! aiutare il mio povero paese.
 
Che stoltezza, non è vero?... Ora questo stolto altruismo che vegetava nel mio cuore comincia a disseccarsi, a ingiallire: al cader dell'inverno credo sarà sparito del tutto. Oh, che deve importare a me, piccola creatura senza mezzi né influenza, che il popolo sardo sia il più povero, incolto, selvaggio popolo dell'Italia? Che le nostre terre siano incolte, che regni la fame e la malaria, che gli ebrei del continente spianino i nostri boschi, che gli stessi sardi delle coste temano di inoltrarsi nel centro infestato da ladroni che rubano per poter scampare alla morte di fame?... Che mi importa che la Sardegna sia la Cenerentola del regno d'Italia, l'ultima delle terre civili?... Sono cose che devono importare a voi, giornalisti, ai deputati sardi, ai forti uomini sardi... Ora rido del mio sogno; mi pare di essermi risvegliata, e percepisco tutta la mia nullità.
 
Delle volte, mentre passeggio, se vedo la mia ombra sottile disegnarsi davanti a me, nel mio modesto vestitino da casa che mi rende più piccina di quel che sono, mi fermo sorridendo e mi derido, e dico alla mia ombra: ma sei dunque tu, tu, piccina mia, che avevi quelle idee per la testa, quelle pazzie nel pensiero?... Povera bimba?...
 
Ciascuno al suo posto, non è vero? Io, forse, seguiterò a scrivere così, per abitudine; ma è certo che il mio sogno di celebrità è caduto. Non ho più una meta, un miraggio, e fra dieci, fra venti, fra cinquant'anni, perché spero di morir vecchia, riguardo a... gloria sarò quel che sono ora.
 
Ecco, ora, sì, ora sono davvero egoista.
 
La patria è dove si è la dove si è felici, ha cantato Firdussi, un poeta persiano che narrava grandi verità, ed anche Guerrazzi, mi pare. La mia patria è dunque la famiglia che mi adora, la casa in cui non regna che la pace e la felicità, il guanciale su cui dormo i miei sonni e i miei sogni di fanciulla. Che deve importarmi del resto? non è vero?... Addio dunque, o gloria! Vedete, Dio mi ha esaudito. Mi ha detto una sola parolina per mezzo vostro... oh, non andate superbo di essere lo strumento di Dio, voi... redattore della "Tribuna"? e il mio povero pensiero si è calmato...
 
Siate dunque benedetto, mio caro Stanis, ora, vedete, concludo senza ironia; io prego per voi. Fate voi, che lo potete, ciò che volevo tentar io. Scrivete, operate sempre per la nostra patria, e siate felice come meritate.
 
E perdonate e dimenticate la vostra piccola ex amica
 
Grazia
 
S.P. Ho ricevuto a suo tempo le vostre Figurine; ed è stata la dedica che ci avete scritto sopra, che mi ha invogliato a scrivervi un'ultima volta. Però vi prego credere che non lo faccio con nessun fine, e vi ripeto ancora che da voi non voglio nulla, neppure amicizia, neppure stima, che forse non merito più.
 
Le vostre Figurine sono piacute a tutti, ed anche a me, naturalmente.
 
G.

Grazia Deledda
lettera a Stanis



E’ il settembre del 1891: Grazia scrive per la prima volta a Stanis Manca. Il giornalista romano chiede di andare a trovarla per un’intervista nella sua dimora nuorese e Grazia è sinceramente preoccupata: in realtà la scrittrice è certa che l’uomo voglia chiederla in sposa data la gentilezza dimostrata nei suoi confronti nelle lettere precedenti.
 
Stanis Manca a chiederla in sposa non ci pensa nemmeno: più che innamorato è mosso da quella curiosità tutta giornalistica per quello strano fenomeno letterario paesano. La ventenne, e qui comincia la storia, scambia il suo interessamento per un corteggiamento galante.
 
Non solo non la chiede in sposa, ma di persona è meno espansivo di quanto non sia stato per lettera. La stessa Grazia, descrittasi “pallida e bruna, un po’ spagnuola, un po’ araba, un po’ latina”, non è audace come su carta.
 
Dopo il rientro a Roma le lettere di Stanis si fanno più rade ed il suo disinteresse diventa più che palese: a Grazia questo non preoccupa e nelle sue lettere si fa più audace
“durante il viaggio nei villaggi rocciosi e selvaggi, ho pensato continuamente a lei”.

 
Stanis non abbocca e nel 1892 lo scambio di lettere diventa un doloroso monologo.
“Mio buon amico, eccomi nuovamente a voi, ma ad un patto: che non mi rispondiate se non avete tempo”.
E lui non risponde, tenta piuttosto di tener le distanze in tutte le maniere.
 
Il 1 giugno del 1892 Grazia, dopo mesi di silenzio inaugura così la sua lettera
“Mio caro, non so più come chiamarvi, signore od amico”.
Gli confida che teme lui abbia creduto, per via dei suoi modi affettuosi, che la donna si sia innamorata del giornalista, ma ancora Stanis non le risponde e lei durante quella stessa estate gli scrive ancora.
 
La risposta di lui fu terribile, “una scudisciata sul volto” come racconterà poi a De Gubernatis, grande confidente della scrittrice. Lei di tutto quel via vai di lettere non solo non ne fa cenno in “Cosima”, ma si libera di qualsiasi scritto, lui invece, vuoi per orgoglio maschile, vuoi per la fama assunta dalla donna, conserva ogni foglio.
 
Fatto è che Grazia non è ancora Premio Nobel e Stanis nel 1892 quando le risponde è senza pietà. Le confessa di averla trovata brutta, quasi deforme nella sua piccolezza, una nana. Non solo, Grazia è sconvenientemente ambiziosa: “Fra dieci anni sentirete parlare di me” gli scrive in una lettera, frase che evidentemente Manca, duca dell’Asinara non gradisce. Ostinatamente la donna scrive al giornalista fino al 1899, perché lo ama? Forse questa non è la risposta più corretta. Stanis Manca è tutto quello che Grazia Deledda non apprezza: biondo, grasso e Duca. La sua ostinazione è dovuta probabilmente (come ipotizzato dalla Rasy in “Ritratti di signora”) al fatto che Stanis è l’unico a rifiutarle simpatia e per giunta l’affetto e Grazia, che vive la situazione come una punizione per la sua diversità dalle altre donne, si ostina tenacemente tentando di conquistare quel che altri le concedono con estrema semplicità. Si innamora dell’idea d’essere legata al giornalista e la conquista diventa più che altro una missione, l’unica che Grazia fallisce.
 
In parallelo Grazia conversa epistolarmente anche con Andrea Pirodda era un giovane di Aggius, suo conoscente fin dall’adolescenza. Nel 1891, oramai maestro elementare Andrea le fa una spietata corte, ma Grazia non se ne cura. Andrea lo ricontatta solo nella primavera del 1892 quando le lettere di Stanis iniziano a farsi rade ed in seguito crudeli. La donna non è più una ragazzina, le spuntano i primi capelli bianchi e Andrea Pirodda è la sua ancora di salvezza. Lo consiglia per conquistarsi una buona posizione, ma l’amore dei primi tempi degenera rapidamente: lui si tira indietro e un anno più tardi sposa un’altra.

Nessun commento:

Posta un commento

commenta questo post

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

home