sabato 23 gennaio 2016

il sogno di Viviana





Dovevo partire, non so per dove, ma non lontano, perché avevo un solo bagaglio con me. Salivo su un treno e raggiungevo il mio posto, un finestrino isolato, proprio all’inizio della carrozza. Era una giornata fresca e l’aria che sapeva un po’ di vaniglia, come quella che si respira passando davanti a certe vecchie pasticcerie.
 
In quel momento non pensavo a Modesto, forse ne ignoravo addirittura l’esistenza (i sogni hanno il potere di liberarti dai legami, di azzerarti la memoria affettiva, se vogliono). Mi sentivo bene, ero contenta di viaggiare da sola, di avere tutto il tempo di leggere il giornale. Il treno era partito in orario e guardavo fuori del finestrino socchiudendo gli occhi. Nella carrozza, oltre a me, c’era una signora sulla sessantina nella fila accanto e, piú in là, all’incirca verso la metà del vagone, una coppia di fidanzati giovanissimi che si dividevano una baguette scambiandosi tenerezze.
 
M’ero appena assopita quando si sono aperte le porte d’intercomunicazione ed è entrato il controllore. Mi ha detto buongiorno e mi ha chiesto il biglietto distogliendo subito lo sguardo, come fanno sempre i controllori quando scribacchiano qualcosa sul mazzetto delle ricevute o fingono di concentrarsi sul display del POS mentre tu cerchi il biglietto in borsa o tra le e-mail del telefonino, neanche li imbarazzasse doverti chiedere di dimostrare di aver pagato, o volessero evitare ogni cordialità per poter essere inflessibili nel caso dovessero multarti.
 
Ho realizzato di non avere il biglietto prima ancora di aprire la borsa. E non è che non lo trovassi, avevo proprio dimenticato di comprarlo. Con la nitidezza di un film girato a mia insaputa, adesso mi rivedevo entrare in stazione, comprare il giornale all’edicola, cercare il treno sui monitor e prendere le scale per il binario, saltando con impressionante naturalezza il passaggio essenziale dell’acquisto del biglietto.
 
Non era da me una distrazione tanto grossolana.
– Senta, – ho detto al controllore, incrociando le mani sulla borsa, – sono costernata. Non ho il biglietto.
– E perché non ce l’ha? – ha chiesto lui, di rincalzo.
Era un uomo dolce nei tratti, ma severo negli occhi. Dalla fronte alle sopracciglia mi ricordava un caro amico di mio padre.
– Non so come sia successo, ma ho dimenticato di comprarlo. Mi vergogno di ammetterlo ma è la verità.
– Questo non ha importanza, – ha ribattuto lui, con un’intransigenza che mi ha subito umiliata.
– E perché? – ho detto scollando le labbra, come una bambina che chieda la spiegazione di una punizione che sta per ricevere.

– Lo sa perché. Lo sapeva benissimo, quando è salita.

Mi si è chiusa la gola. Non sapevo in cosa consistesse la colpa che quell’uomo mi stava buttando addosso, ma una parte di me l’accettava come se la riconoscesse. Cosa avevo fatto di male? Dove avevo sbagliato? Avrei pianto, se ci fossi riuscita.
– Io… mi dispiace, davvero, – ho balbettato. – Mi scusi. Scenderò alla prima fermata.

Il controllore s’è voltato verso la signora dell’altra fila. Si sono scambiati un cenno di sufficienza, come se la frase che avevo appena pronunciato l’avessero sentita mille volte, prima, e suonasse a entrambi come la piú rimasticata delle giustificazioni.
– Questo non è possibile, – ha detto il controllore.
Ho guardato la signora, domandando a lei con gli occhi. Non riuscivo a parlare.
– Si scende solo al capolinea, – mi ha detto con una gentilezza che sembrava fatta per compensare la severità del controllore, che adesso componeva un numero sul suo telefono. Un modo di denunciarmi, credo.
Mi sono accorta di piangere leccandomi una lacrima.
– Ma io devo tornare a casa.
– Non puoi, – mi ha spiegato la signora. – Devi aspettare la fine del viaggio.
– Ma io non so dove arriva questo treno.
Lei s’è allungata verso di me, mi ha carezzato il viso con dolcezza e mi ha parlato di nuovo, quasi all’orecchio, con una nota di mestizia.
– E allora perché sei salita, figlia mia?
– Preparatevi, che adesso tocca a voi, – ha detto il controllore alzando la voce in direzione dei fidanzati, che avevano finito la baguette e ora si mordicchiavano le labbra l’un l’altra.
La ragazza ha ficcato la faccia nel collo del fidanzato, sghignazzando. E lui pure s’è coperto la bocca con la mano. La signora li guardava con un sorriso compiaciuto. Io ero invidiosa del modo in cui si prendevano gioco dell’autorità.
– Loro non hanno paura, – ho detto io.
– Sai quanto gliene importa del controllore e del biglietto, – ha detto lei. – Sono giovani, hanno tutta la vita davanti per tornare indietro.

I ragazzi adesso si erano avvicinati al finestrino e con le dita disegnavano pupazzetti sul vetro ricoperto di vapore.
Non mi ero accorta che avesse cominciato a piovere.
– Mi faccia scendere, per favore, – ho detto al controllore, tirandolo per la giacca. Vedevo il suo profilo come attraverso un vetro smerigliato, tanto mi aveva riempito gli occhi la tristezza.
Ma lui non mi dava retta. Restava col telefono all’orecchio, aspettando che rispondessero alla sua chiamata.
 
Diego De Silva Terapia di coppia per amanti




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