venerdì 12 gennaio 2018

La realtà dell'altro non è in quello che rivela, ma in ciò che non può rivelare



Una cara amica ci ha detto, recentemente - citando un autore che non le veniva in mente, ma che è il poeta libanese Khalil Gibran - che la realtà dell'altro non è in quello che rivela, ma in ciò che non può rivelare; per cui, se si vuole veramente capirlo, non bisogna ascoltare le parole che egli dice, ma quelle che non dice.
 
È una osservazione molto profonda e molto vera, sulla quale sarebbe opportuno riflettere a lungo: i nostri rapporti col prossimo ne sarebbero radicalmente trasformati, e, osiamo pensare, probabilmente in meglio.
 
Non si tratta semplicemente di sforzarsi di assumere il punto di vista dell'altro, cosa già assai rara, per quanto preziosa e, sovente, indispensabile, se vogliamo dare qualità e spessore alle nostre relazioni interpersonali. Si tratta di imparare a cogliere i suoi silenzi, le sue assenze, i suoi dinieghi: perché è lì che si cela il mistero ultimo della sua anima.
 
Naturalmente, oltre alle cose che l'atro non dice, vi sono tutte le cose che l'altro non esprime con il corpo, con le azioni, con l'espressione del viso; perché le parole sono un mezzo di comunicazione intenzionale, e, come tale, non sempre veritiero e non sempre attendibile; ma il corpo, i gesti, la mimica facciale, possono essere «letti» come espressione in gran parte immediata, e quindi sostanzialmente veritiera, del nostro essere profondo.
 
Vogliamo dire che, se il linguaggio umano è per sua natura ambiguo, sia perché falsificabile, sia perché i suoi stessi silenzi possono essere studiati ad arte, il linguaggio del corpo parla, invece, chiaramente: e, se «mente», la sua menzogna è più che evidente, se si possiede anche solo un minimo di penetrazione psicologica.
 
Perciò, se davvero si desidera accostarsi - per quanto possibile - al mistero di un'altra anima, bisogna confrontare l'osservazione dei silenzi del corpo con l'ascolto dei silenzi delle parole; e, unendo i due diversi elementi, ne risulterà un quadro abbastanza esatto di ciò che quell'anima non è in grado di esprimere.
 
Ora, quando un'anima non è in grado di esprimere qualcosa, ciò può dipendere da due fattori: o da un limite oggettivo, nel senso che quel qualcosa sfugge completamente al dominio spirituale di quell'anima; o da un limite soggettivo, nel senso che essa ha disimparato a coltivare una parte di se stessa, o ha perso la fiducia in sé, oppure ancora nel senso che essa possiede delle potenzialità di cui non è consapevole, ma che, poste le condizioni adatte, sono suscettibili di risvegliarsi e di fiorire pienamente.
 
Se il limite è oggettivo, non c'è niente da fare: nessuno stimolo, nessuna attenzione, nessuna dolcezza, potranno risvegliare ciò che non esiste. Questo, di illudersi circa delle potenzialità che non vi sono, è un errore piuttosto caratteristico nell'incontro fra due anime, specialmente da parte delle donne.
 
Si direbbe quasi che nella natura femminile vi sia una fede tenace nella possibilità di modificare l'altro, portando a galla certe supposte qualità che giacerebbero sul fondo, addormentate. Gli ammiratori delle donne affermano che questo è il segno distintivo della loro nobiltà, della loro generosità, della loro disponibilità a mettersi in gioco illimitatamente, senza riserve; i loro detrattori vi scorgono, al contrario, gli indizi inequivocabili della loro ostinata volontà di manipolazione dell'altro, di dominio e di sottile sopraffazione.
Probabilmente vi è qualcosa di vero in entrambe le posizioni.
 
Scommettere che nell'altro vi siano virtù nascoste, qualità assopite e, in genere, più cose di quante non appaiano all'esterno, è certamente un segno di sensibilità, apertura e fiducia nella natura umana; ma il confine che separa tutto ciò da un latente desiderio di esercitare un controllo sull'altro, trattandolo alla stregua di una propria creatura, è spesso labile e incerto.
 
Sia come sia, non c'è motivo di soffermarsi troppo sui limiti oggettivi dell'anima; così come è un interrogativo che ci porterebbe troppo lontano, quello di chiederci perché mai a certe anime siano preclusi determinate sensibilità, determinate potenzialità, determinati luoghi dell'essere. Il fatto è quello, e negarlo sarebbe una forma illusoria di democraticismo esasperato: non è vero che tutte le anime possano arrivare agli stessi traguardi; non è vero che tutte le anime sentano le cose allo stesso livello di profondità: non nella loro vita presente, per lo meno.
 
Dunque, ci sembra più interessante concentrare l'attenzione sull'altro aspetto della questione, ossia sui limiti soggettivi dell'anima.
Abbiamo già detto che il confine tra le due cose non è sempre netto e preciso; o meglio che, sovente, non è riconoscibile a priori, ma solo dopo averne fatto l'esperienza concreta. Pertanto, lasciamo perdere il caso in cui un'anima sembri incapace di esprimere certi contenuti per motivi contingenti, mentre invece la sua incapacità è costituzionale: come se si pretendesse da un longilineo di eccellere nel lancio del peso, o a un individuo di cinquanta chili di cimentarsi, nel pugilato, nella categoria dei pesi massimi.
 
Un'anima può disimparare a esprimere certi contenuti, oppure può non aver mai saputo di possederli, o, ancora, può perdere la fiducia in se stessa, per le ragioni più svariate; ma tutte, generalmente parlando, riconducibili a una sostanziale ignoranza di sé, a una inconsapevolezza o a una mancanza di fedeltà alla propria chiamata.
 
L'ignoranza di sé è la tipologia più diffusa: non per nulla, quasi fin dagli albori della filosofia occidentale, sentiamo risuonare, da parte dei grandi saggi, il solenne ammonimento: «Nosce te ipsum», «Conosci te stesso», come premessa fondamentale e irrinunciabile alla nostra condizione di uomini, nel pieno senso della parola.
 
Vi sono, d'altra parte, vari generi di mancata conoscenza di sé: non sono tutti uguali, non tutti si equivalgono. A un estremo della scala vi è l'inconsapevolezza che deriva dalla mancanza di esperienza: questa è la condizione tipica dei bambini; aggiungendo, contemporaneamente, che se al bambino difetta la conoscenza razionale e discorsiva della propria anima, non gli difetta affatto la conoscenza intuitiva e sensoriale.
 
Il bambino, infatti, pensa per immagini, mentre l'adulto pensa per concetti; e, come osservava giustamente Ernst Jünger, ridurre il pensiero ad una forma di attività esclusivamente concettuale significa trattare la lingua con la medesima crudeltà di colui che vede soltanto le categorie sociali, ma non gli uomini in carne ed ossa.
 
All'estremo opposto della scala troviamo la mancata conoscenza di sé da parte di quelle anime che non si sono mai interrogate, perché non si sono mai trovate nelle condizioni che le sollecitassero a farlo; ma che, tuttavia, possiedono una certa riserva di ricchezza spirituale, una disponibilità ad aprirsi, una innata capacità di scendere in profondità.
 
Tra questi due estremi - l'inconsapevolezza di chi non ha esperienza e quella di chi non si è mai guardato dentro - esiste tutta una gamma di situazioni intermedie, o variamente intrecciate e confuse, nelle quali esiste una percentuale del primo tipo ed una del secondo, con prevalenza ora dell'uno, ora dell'altro.
 
Quello che hanno in comune queste classi di anime è l'incapacità, o per meglio dire l'impossibilità, di esprimere determinati contenuti, fino a quando non si verifichi un mutamento nelle circostanze esterne e non si dia loro l'occasione per compiere un salto evolutivo.
 
Una osservazione attenta dei modi espressivi di tali anime - sia nei discorsi verbali, sia nel linguaggio del corpo - è in grado di rivelare piuttosto chiaramente quali sono i limiti e le zone di silenzio proprie a ciascuna di esse; una osservazione più approfondita, potrà mostrare se si tratta di limiti oggettivi e invalicabili, o soggettivi e, pertanto, superabili.
 
Ma perché dovrebbe essere così importante il fatto di riuscire a mettere a fuoco i silenzi e le zone morte dell'anima, sia la propria che quella altrui?
Dicevamo, all'inizio, che il mistero ultimo dell'anima si cela proprio nei suoi silenzi, nelle sue assenze, nei suoi dinieghi; e che, pertanto, la qualità delle relazioni interpersonali - e, naturalmente, la qualità della relazione dell'anima con se stessa - trarrebbero un immenso giovamento dalla conoscenza di tali zone di inespressività.
 
Per non restare troppo sul vago: una persona che non ride mai ci dice già, con questo solo fatto, molte cose sulla propria visione del mondo e sul proprio grado di felicità e benessere interiore; viceversa, una persona che scherza sempre e non fa mai discorsi seri, nemmeno a tu per tu con gli amici più intimi e fidati, rivela anch'essa un disagio profondo, che invano si sforza di dissimulare dietro la cortina delle battute e delle barzellette.
 
Il linguaggio del corpo, come dicevamo, è ancora più esplicito e ancora meno falsificabile: una persona che si veste sempre da capo a piedi, anche nelle giornate estive più soffocanti, la dice lunga sulla conflittualità con il proprio corpo; un'altra, che cammina sempre curva e con lo sguardo a terra, tradisce la mancanza di autostima e di fiducia nella vita.
 
Per venire a questioni più essenziali: una persona che non parla mai della morte, e che, davanti allo spettacolo di essa, si ritrae e tende a fuggire, manifesta chiaramente il suo terrore in proposito, la sua non accettazione della finitezza, la sua tendenza a eludere i problemi ai quali non è dato sottrarsi: e quindi, in definitiva, la sua pronunciata immaturità.
 
Esiste un caso, però, del tutto particolare - ma che è anche il più interessante - in cui l'abito non fa il monaco, ma avviene tutto il contrario: quello dell'anima che tace su determinati contenuti, perché li ritiene così intimi e preziosi, così delicati e umbratili, da non volerne far parte con alcuno, dato che li considera al tempo stesso la propria ragione di vita e il proprio segreto più geloso.
 
Dicevamo che si tratta del caso più interessante, perché è quello delle anime più profonde e più delicate: esse non amano sbandierare la propria vita interiore, né sono propense a condividere col primo che capita i propri moti più intimi ed ineffabili; sono talmente consapevoli della preziosità di ciò che custodiscono, da avere la sensazione che, parlandone apertamente, finirebbero in qualche modo per «sporcarlo».
 
Sono anime pudiche, a volte in modo esagerato; tuttavia, in una società che tende ad esibire tutto e a mettere in vendita tutto, anche le cose più personali e riservate, non si può non provare una istintiva simpatia per lo scrupolo di segretezza che muove queste anime, e che le accompagna fedelmente nei loro silenzi e nella loro ritrosia.
 
Per fare un esempio molto semplice: può succedere che un individuo sia talmente innamorato di un'altra persona, e che, al tempo stesso, sia talmente geloso del proprio sentimento, da sorvegliarsi costantemente, affinché non gli sfugga mai una parola dalla quale gli altri potrebbero averne la rivelazione (e si badi che quest'altra persona potrebbe anche essere morta, o assente per altri motivi; oppure potrebbe essere la persona divina).
 
Tuttavia, come si è visto, il corpo non può mentire. Fate che la persona amata passi accanto o si soffermi a parlare con lui, e quell'individuo ben difficilmente potrà nascondere, suo malgrado, il proprio segreto: il corpo trema, comincia a sudare; lo sguardo s'illumina; le guance avvampano; il respiro si fa irregolare: chi non conosce i celebri versi di Saffo, nei quali la poetessa greca descrive gli effetti fisici dell'innamoramento?
 
Dunque, è importante saper interpretare i silenzi dell'altro, saper capire che cosa significa quello che la sua anima non è capace di esprimere. Ovviamente, è altrettanto importante saper capire ed interpretare i propri stessi silenzi e le proprie assenze.
 
Una persona non ha mai ballato e pensa che mai vorrà farlo: che cosa si cela dietro quel rifiuto di lasciare che il proprio corpo si muova in libertà, al ritmo della musica? I bambini, istintivamente, amano ballare: dunque, si tratta di una tendenza innata e naturale.
 
Non vogliamo in alcun modo introdurre nei rapporti sociali, e magari nei rapporti dell'anima con se stessa, la «cultura del sospetto» di freudiana memoria; non intendiamo dire che dietro ogni parola si celi il suo contrario, e che dietro ogni gesto stia nascosto il gesto opposto.
 
Quel che abbiamo cercato di sostenere è ben altro: e cioè che l'anima dovrebbe abituarsi a guardare oltre le apparenze, oltre le strettoie del pensiero concettuale, oltre i giochetti del nascondimento o, peggio, della pigrizia morale: e cominciare a mettersi in gioco.
 
Una vita piena e degna di essere vissuta è quella in cui l'anima non tende al risparmio, non si camuffa, non fugge: ma si guarda dentro per quella che è, si ascolta, si ama, si perdona, e si apre fiduciosamente agli altri, nella misura in cui è disposta a condividere con essi i rischi e le gioie di chi non vuole vivere all'insegna della paura e dell'impotenza.

Francesco Lamendola - 17/07/2009

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