Marco Luppi
Ma io non sono io. Non più.
Non posso concedermelo.
La lucidità e il disincanto
ancora non mi appartengono.
Non mi stupisco
Del paradosso della poesia così come quello di ogni altra cosa tanto invisibile quanto più rilevante. Dell’arroganza diventata più contagiosa della tristezza. Della critica senza consapevolezza, delle vittime che elogiano la propria ignoranza. Di uomini troppo stupidi per notare donne intelligenti e di donne troppo intelligenti per farsi notare. Di chi fa finta di niente facendo finta di fare. Del sottile filo che intercorre tra l’essere fortunato e l’essere fottuto. Dell’umana violenza per gli esseri viventi né del culto dei suoi defunti. Di un dio che uccide due volte tutti i suoi devoti. Di chi paga per essere salvato da un prete, da una prostituta o da un clown. Della volgarità del bene e della mediocrità del male. Dell’odio che unisce molto più di quanto l’amore riesca a fare. Dei rapporti che ciclicamente passano dall’amicizia all’odio per poi conquistare l’indifferenza necessaria a ripartire. Dell’intraprendenza di certi maghi che usano il vostro buco di culo dentato al posto del cilindro. Della pochezza sufficiente a qualunque travestimento. Degli oroscopi che subito dopo i necrologi sono le cose più autorevoli riportate sui quotidiani. Della mancanza di limite che hanno certe facce. Di chi vomita parole a spruzzo e di chi non le smorza spingendole giù fino in fondo, fino a imprimersele dentro. Ché nel giorno di Natale ci si affeziona anche alle proprie inferriate. Ma io non sono io. Non più. Non posso concedermelo. La lucidità e il disincanto ancora non mi appartengono.Marco Luppi
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