Tutto finisce per attenuarsi, talvolta a poco a poco e con molto sforzo e con il contributo della nostra volontà; talvolta con inaspettata fretta e contro quella volontà, mentre tentiamo invano che non impallidiscano né ci vadano sfumando i volti, e che i fatti e le parole non si facciano imprecisi e fluttuino nella memoria con lo scarso valore di quelli letti nei romanzi e visti e sentiti nei film: ciò che vi succede è indifferente e si dimentica, una volta che siano terminati anche se hanno la facoltà di
mostrarci quello che non conosciamo e quello che non accade,
Ciò che qualcuno ci racconta assomiglia sempre a quelli, perché non lo conosciamo di prima mano né abbiamo la certezza che sia accaduto, per quanto ci assicurino che la storia è vera, non inventata da nessuno ma che è avvenuta. In ogni caso fa parte dell’universo vagante delle narrazioni, con i suoi punti ciechi e le sue contraddizioni e le sue ombre e le sue falle, circondate e avvolte tutte nella penombra o nell’oscurità, senza che abbia importanza quanto esaustive o diafane pretendano di essere, perché niente di questo è alla loro portata, né la trasparenza né l’esaustività. Si, tutto si attenua, ma è anche vero che niente sparisce né se ne va mai del tutto, permangono deboli echi e fuggevoli reminiscenze che sorgono da un momento all’altro come frammenti di làpidi nella sala di un museo che nessuno visita, cadaverici come rovine di timpani con iscrizioni crepate, materia remota, materia muta, quasi indecifrabili, senza quasi senso, assurdi resti che si conservano senza alcun proposito, perché non potranno mai essere ricomposti e ormai sono meno illuminazione che tenebra e molto meno ricordo che non oblio.
Javier Marias
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