venerdì 23 ottobre 2015

La Grande Fiamma - 7 - fine





Improvvisamente, presa da una orribile paura, ella si mise a correre, vedendo appena la sua strada, urtando le persone, lasciando appena il tempo alla guardia di tagliare il biglietto, arrivando sul terrapieno, appena a tempo per vedere il treno delle due e cinquantacinque allontanarsi lentamente. Ella tese le braccia e gridò, come se avesse potuto fermarlo. Un facchino sorrise; mentre gli impiegati della stazione, raccolti in gruppo, la guardavano con curiosità. Alla paura ella sentì subentrare una grande angoscia e una grande vergogna: rientrò nella sala di aspetto, deserta, si andò a buttare in un cantuccio, stringendo le labbra per non singhiozzare dietro il velo, stringendo nelle mani nervose, convulsamente, il manico di cuoio della borsetta. Perdere il treno, che miseria, che disgrazia ridicola, che tragedia buffa! Le pareva un'avventura così sciocca, così volgare che non sembrava possibile fosse capitata proprio a lei, nel momento supremo in cui si decideva la crisi del suo amore; era fremente di sdegno e di onta. Tanta forza di volontà, tanto impeto vincitore, tanto magnetismo trionfante di amore, tanta elettricità condensata... e farsi buttare a terra da un orologio che non va, o da un cocchiere che non ha saputo sferzare il suo cavallo. Avrebbe pianto di collera. Vediamo, quale era la piccola, meschina causa, la causa stupida per cui tutto l'edifizio era crollato? E cercava, invano, di ricordarsi: se era stata la propria lentezza nell'annodarsi il velo in casa sua, a Napoli, nel suo appartamento solitario; o l'esser tornata indietro, un momento, per aver dimenticato un taccuino da cui non si separava mai; o il non aver trovato immediatamente la carrozza da nolo; o perchè il cocchiere avea prescelto la stretta, difficoltosa e ingombra via di Forcella alla via della Marina, per andare alla stazione. Chi lo sa! Si trattava di cinque minuti, di soli cinque minuti, cinque piccolissimi, cortissimi, brevissimi minuti, che si perdono così naturalmente, così facilmente un po' qui, un po' là, senza saper come: e la loro perdita, poi, equivale alla rovina di tutto un sogno!

Fu solamente dopo un'ora di riflessioni amarissime, che ella sentì un soffio di rassegnazione penetrarle nel cuore: ma pur essendosi calmata, un'amaritudine gliene rimase. Si levò, risolutamente: andò a leggere l'orario, sulla parete stuccata di bianco. Avrebbe potuto partire soltanto la sera, alle dieci e quarantacinque. Circa sette ore di attesa! Pure, non ebbe il coraggio di rientrare in città, a Napoli; le sarebbe parsa una rinunzia completa. Avrebbe aspettato nella stazione. Non l'avrebbero mandata via, da quella sala d'aspetto? Non aveva mai viaggiato sola: non sapeva niente. Il guardiano le si accostò, guardandola curiosamente. Ella gli donò subito cinque lire: si sentì meno timorosa. Cercava di ricostruire il suo piano. Bisognava, innanzi tutto, telegrafare a Ferrante - e tal pensiero la faceva arrossire, pensava che avrebbe egli detto, trovandola così sciocca, così distratta da perdere il treno. Che dirà, che dirà? - si andava domandando, mentre girava intorno alla stazione, senza ritrovare l'ufficio telegrafico. Alla fine lo trovò. E allora non seppe dove indirizzare il telegramma; non seppe che cosa dire, si sentiva così irritata e umiliata, con sè stessa, col caso, che lacerò i fogli, senza riescire. Alla fine, mettendo l'indirizzo della stazione di Roma gli telegrafò, così confusamente, che le riesciva impossibile partire prima delle dieci e quarantacinque, senza aggiungere le ragioni di questo impossibile e soggiunse, umilmente: perdonami. Lo soggiunse, poichè non potea resistere all'idea del dolore di lui, Ferrante, non vedendola giungere alla stazione di Roma, trovando un telegramma invece della sua persona. Oh quelle sette ore di attesa! La pallida signora, vestita di un grande mantello bruno, tutta chiusa in un grande velo di garza bruna, snella e flessuosa nella persona, dall'andatura un po' lenta, un po' stanca, fu vista da per tutto, ripetutamente, nella stazione, per quel pomeriggio e per quella sera. Innanzi alle lunghe vetrine del libraio e nella sala gelida dei bagagli, camminando, fermandosi, sfogliando distrattamente un libro, aprendo un giornale illustrato; di nuovo alla sala del telegrafo, donde telegrafò a Sorrento, a due o tre persone che non la interessavano punto; verso le sette nella sala del buffet, dove prese un brodo e una tazza di caffè, malgrado che non avesse fame, seguendo con l'occhio distratto i multicolori avvisi della macchina Singer, della Coca Buton e della ferrovia lombarda ai Tre laghi; fu vista finanche fuori stazione, passeggiare in giù e in su, facendo voltare tutti quelli che la incontravano, mentre essa guardava, certo senza vederli, il malinconico giardinetto della piazza, e le carrozze da nolo disposte intorno come i raggi di un cerchio, e le insegne dondolanti degli equivoci alberghi dal fanale verde o rosso; e da capo, come se ella non potesse stare ferma, fu incontrata al telegrafo, alla posta, nei terreni incolti della Piccola Velocità, presso il venditore di libri e di giornali, su e giù, su e giù per tutte le gallerie. Questo irrequieto fantasma muliebre vide empirsi e vuotarsi le sale di aspetto dei viaggiatori che partivano successivamente per le linee di Salerno, di Castellammare, di Foggia, di Aquila: vide fermarsi e andarsene i treni carichi di uomini, di donne, di borghesi e di contadini, che se ne andavano ai loro affari, al loro lavoro, alle loro cure. E nella ultima ora di attesa la invase una stanchezza profonda; rincantucciata in un angolo della sala di aspetto, silenziosa, immobile, col sacchetto sulle ginocchia, ella guardava le ondeggianti fiammelle del gas che il vento della sera agitava, e fu il guardiano della sala che l'avvertì della partenza - tanto in lei si era fatta la convinzione che era inutile più partire, che Ferrante non l'amava più, che tutto era finito. Tutta la notte del viaggio, lunga, lenta, con le sue numerose, monotone fermate, ella la passò in una veglia dolorosa alternata da qualche torpore doloroso, tutta sola nel suo compartimento, tremando di freddo malgrado le coperte e le pelliccie. L'alba si levò sulla severa campagna romana; donna Grazia dormiva, ora, pallida pallida, e solo i tre lunghi, striduli fischi del treno che entrava in Roma la riscossero. Le parve di uscire da un sogno triste: il sole illuminava le prime case di Roma, e la nebbia romana, e il fumo del treno, una felicità di calore e di luce l'avvolse, scendendo dal vagone, poggiando la sua mano sottile guantata sempre di nero in quella tremante di Ferrante. Si guardarono, così, lungamente, fra la folla, tenendosi per mano, camminando quasi portati.

- Sei venuta, poi.... - mormorò lui, cercando di dominare la propria emozione, intensa, soffocante.
- Credevi che non venissi più? - chiese lei, con uno sguardo scrutatore, fermandosi un minuto.
- Sì, l'ho creduto - soggiunse lui, chinando gli occhi, confessando con quelle parole tutte le angoscie della sua serata e della sua nottata.
- Mi perdoni? - domandò lei, umilmente, dolorosamente, sentendo bene che fra loro era già sorto e consumato il primo dolore.
- Non dir così: tu ti puoi dare e ti puoi ritogliere - disse fermamente lui, guardando altrove, per non far vedere che sforzo questa fermezza gli costava.

Essa non rispose. Poteva dirgli che il proprio ritardo non era stata una crudele esitazione, l'idea novamente feroce di spezzare quell'amore: poteva semplicemente dirgli che era stata la perdita di cinque minuti, per annodare il velo del cappello, o per prendere il taccuino dimenticato e che quindi ella aveva perduto il treno. Le parve, questa ingenua narrazione, così ridicola, così volgare, che non osò farla; e lasciò, per viltà, che perdurasse quell'amaro malinteso, quel senso triste di sfiducia che era nato nell'animo di Ferrante.

Adesso, col facchino dietro, erano in piazza della stazione.
- Dove andiamo? - ella chiese.
- Non so.... - rispose Ferrante, incerto. - Avremmo dovuto partire ieri sera. Stanotte, io non sono rientrato in casa mia, ero così turbato....
- Quando parte, il prossimo treno, per Firenze? - diss'ella, brevemente.
- Alle dieci e mezzo, fra tre ore.
- Tre ore, tre ore.... - mormorò Grazia, come pensando.
- Vuoi che ti accompagni a casa mia.... non vi è nessuno.... o in albergo? - E il verbo accompagnare era stato molto sottolineato. - No, no, a casa tua - rispose subito Grazia, con una paura nella voce.
- Allora, in albergo? - soggiunse lui, pazientemente.
-.... Sì,... ma senza entrare in Roma - e abbassò gli occhi, come vergognandosi.
- Vi è il Continentale qui dietro, in Piazza Margherita, non ti stancherai molto.

Seguìti dal facchino che portava le loro robe, vi andarono; sottovoce come se indovinasse le intenzioni di Grazia, Ferrante chiese due stanze al segretario dell'albergo; sottovoce costui gli domandò se le voleva vicine, e Ferrante gli disse subito che non importava. Grazia saliva innanzi, chinando il capo; alla porta della sua stanza, il segretario li salutò. Ella restò ferma, guardando Ferrante, con la mano appoggiata sulla maniglia della porta.

- Rammentati, è alle dieci e mezzo: verrò a prenderti alle dieci - disse Ferrante, gelidamente.
Le fece un saluto corretto e si allontanò subito.

Matilde Serao *** La Grande Fiamma - 7
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