lunedì 14 marzo 2016

quello che succede e quello che non succede

Javier Marías
Quello che succede e quello che non succede,
 
Forse non è la cosa più sensata, da parte di uno scrittore che scrive soprattutto romanzi, confessare che gli sembra sempre molto strano non soltanto scriverne ma anche leggerne. Ci siamo abituati a questo genere ibrido e flessibile da almeno trecentonovant’anni, da quando nel 1605 uscì la prima parte del Chisciotte nella mia città natale, Madrid, e ci siamo così tanto abituati che consideriamo del tutto normale il gesto di aprire un libro e di cominciare a leggere ciò che non ci si nasconde che è finzione, vale a dire, qualcosa di non accaduto, che non ha avuto luogo nella realtà.
 
Il filosofo romeno Cioran, morto di recente, spiegava che non leggeva romanzi proprio per questa ragione: poiché sono accadute tante cose nel mondo, non poteva interessarsi a quelle che non sono neppure avvenute; preferiva le memorie, le autobiografie, i diari, gli epistolari e i libri di Storia. A ben pensarci, forse Cioran non aveva torto e forse è inspiegabile che persone adulte e più o meno coscienti siano disposte a immergersi in una narrazione di cui sin dal primo momento sanno che si tratta di un’invenzione. E’ ancora più strano se consideriamo che i nostri libri attuali hanno in copertina, ben visibile, il nome dell’autore, spesso la sua foto e una nota biografica nel risvolto, talvolta una dedica o una citazione, e sappiamo che tutto questo è ancora di quell’autore e non del narratore.
 
A partire da una determinata pagina, come se con quella pagina si levasse il sipario di un teatro, fingiamo di dimenticare del tutto ciò di cui siamo bene al corrente e ci accingiamo ad ascoltare un’altra voce in prima o in terza persona che tuttavia sappiamo essere la voce di quello scrittore, impostata o mascherata. Che cosa ci dà questa capacità di simulare? Perché continuiamo a leggere romanzi, e ad apprezzarli e a prenderli sul serio e perfino a premiarli, in un mondo sempre meno ingenuo?
 
Sembra un dato di fatto che l’uomo – e forse la donna ancora di più – abbia bisogno di una certa dose di finzione, vale a dire abbia bisogno dell’immaginario oltre che dell’accaduto e del reale. Non mi spingerei fino al punto di usare espressioni che trovo risapute o kitsch, come affermare che l’essere umano ha bisogno di «sognare» o di «evadere» (un verbo, quest’ultimo, molto mal visto negli anni settanta, sia detto en passant). Preferisco dire che ha bisogno di conoscere il possibile oltre che il vero, le congetture e le ipotesi e i fallimenti oltre ai fatti, ciò che è stato tralasciato e ciò che sarebbe potuto essere oltre a quello che è stato.
 
Quando si parla della vita di un uomo o di una donna, quando se ne traccia una ricapitolazione o un riassunto, quando se ne racconta la storia o la biografia, in un dizionario o in una enciclopedia o in una cronaca o chiacchierando tra amici, si è soliti raccontare ciò che quella persona ha portato a compimento e ciò che è effettivamente accaduto. In fondo, tutti abbiamo la stessa tendenza, vale a dire quella di vederci nelle diverse fasi della nostra vita come risultato e compendio di ciò che ci è accaduto e di ciò che abbiamo ottenuto e di ciò che abbiamo realizzato, come se fosse soltanto questo ciò che costituisce la nostra esistenza. E dimentichiamo quasi sempre che le vite delle persone non sono soltanto questo: ogni percorso si compone anche delle nostre perdite e dei nostri rifiuti, delle nostre omissioni e dei nostri desideri insoddisfatti, di ciò che una volta abbiamo tralasciato o non abbiamo scelto o non abbiamo ottenuto, delle numerose possibilità che nella maggior parte dei casi non sono giunte a realizzarsi – tutte tranne una, alla fin fine -, delle nostre esitazioni e dei nostri sogni, dei progetti falliti e delle aspirazioni false o deboli, delle paure che ci hanno paralizzati, di ciò che abbiamo abbandonato e di ciò che ci ha abbandonati. Insomma, noi persone forse consistiamo tanto in ciò che siamo quanto in ciò che siamo stati, tanto in ciò che è verificabile e quantificabile e rammemorabile quanto in ciò che è più incerto, indeciso e sfumato, forse siamo fatti in ugual misura di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere.
 
E mi spingo fino a pensare che sia appunto la finzione a raccontarci tutto questo, o meglio, a servirci da promemoria di quella dimensione che siamo soliti lasciare da parte al momento di raccontare e di spiegare noi stessi e la nostra vita. E oggi il romanzo è ancora la forma più elaborata di finzione, o così credo. In un certo senso, il libro che la giuria del Premio Internacional Rómulo Gallegos ha appena premiato in modo tanto arrischiato e discutibile tratta di questo. Nel testo che avete tra le mani si dice che Domani nella battaglia pensa a me parla, tra le altre cose, dell’inganno nel senso più ampio della parola, e si cita una frase del romanzo che afferma: «Vivere nell’inganno è facile ed è la nostra condizione naturale, e in realtà questo non dovrebbe dolerci poi tanto». Si ricorda che tutti viviamo, in maniera parziale ma permanente, subendo l’inganno oppure praticandolo, raccontando soltanto una parte, nascondendo un’altra parte e mai le stesse parti alle diverse persone che ci circondano. E tuttavia, a quel che sembra, non siamo del tutto capaci di abituarci a ciò. E quando scopriamo che qualcosa non era come l’abbiamo vissuto – un amore o un’amicizia, una situazione politica o una aspettativa comune e addirittura nazionale – ci si presenta nella vita reale quel dilemma che può tormentarci così tanto e che in grande misura è il terreno della finzione: non sappiamo più com’è stato per davvero ciò che ci sembrava certo, non sappiamo più come abbiamo vissuto ciò che abbiamo vissuto, se è stato quello che abbiamo creduto fino a quando siamo stati ingannati o se dobbiamo gettare tutto quanto nel sacco senza fondo dell’immaginario e tentare di ricostruire i nostri passi alla luce della rivelazione presente e del disinganno.
 
La più completa delle biografie non è fatta d’altro che di frammenti irregolari e di scampoli scoloriti, anche la propria biografia. Crediamo di poter raccontare le nostre vite in maniera più o meno ragionata e precisa, e quando cominciamo ci rendiamo conto che sono affollate di zone d’ombra, di episodi non spiegati e forse inesplicabili, di scelte non compiute, di opportunità mancate, di elementi che ignoriamo perché riguardano gli altri, di cui è ancora più arduo sapere tutto o sapere qualcosa. L’inganno e la sua scoperta ci fanno vedere che anche il passato è instabile e malsicuro, che neppure ciò che in esso sembra ormai fermo e assodato lo è per una volta e non per sempre, che ciò che è stato è composto anche da ciò che non è stato, e che ciò che non è stato può ancora essere.
 
Il genere romanzo dà tutto questo o lo sottolinea o lo porta alla nostra memoria e alla nostra coscienza, e da ciò deriva forse il suo perdurare e il suo non essere morto, contrariamente a quanto è stato affermato tante volte. Da ciò deriva che forse non è vero quel che ho detto all’inizio, cioè che il romanzo racconta quello che non è accaduto. Forse è vero piuttosto che i romanzi succedono per il fatto che esistono e vengono letti e, a ben vedere, con il passare del tempo ha assunto più realtà Don Chisciotte che qualunque altro dei suoi contemporanei storici della Spagna del XVII secolo; Sherlock Holmes è successo in misura più ampia che non la regina Vittoria perché continua ancora a succedere ininterrottamente, come fosse un rito; la Francia degli inizi del secolo più vera e duratura, più «praticabile», è senza dubbio quella che compare nella Ricerca del tempo perduto; e penso che per voi l’immagine più autentica del vostro paese sia mescolata alle pagine inventate da don Rómulo Gallegos.
 
Un romanzo non soltanto racconta, ma ci permette di assistere a una storia o ad alcuni eventi o a un pensiero, e nell’assistervi ci permette di comprendere. Sapere tutto ciò – credere di saperlo, più esattamente – a volte non risulta sufficiente per lo scrittore, mentre scrive. Vi sono momenti in cui alzo lo sguardo dalla macchina per scrivere e mi estranio dal mondo da cui sto emergendo, e mi domando come, nella mia età adulta, possa dedicare tante ore e tanta fatica a qualcosa di cui il mondo, me compreso, potrebbe fare tranquillamente a meno; come possa impegnarmi a riferire una storia che io stesso vado scoprendo man mano che la costruisco, come possa trascorrere parte della mia vita calato nella finzione, a far succedere cose che non succedono, con la stravagante e presuntuosa idea che tutto questo possa un giorno interessare qualcuno. Come, secondo la definizione dell’attività letteraria data dal romanziere e saggista e poeta Robert Louis Stevenson, possa starmene «a giocare in casa, come un bambino, con della carta».
 
Ogni scrittore è ancora di più lettore, e lo sarà sempre: abbiamo letto più libri di quelli che potremo mai scrivere, e sappiamo che quell’interesse, quell’appassionarsi, è possibile perché lo abbiamo sperimentato centinaia di volte; e che talvolta comprendiamo meglio il mondo o noi stessi attraverso quelle figure fantasmali che percorrono i romanzi o quelle riflessioni fatte da una voce che sembra non appartenere del tutto all’autore né al narratore, cioè, non del tutto a nessuno di loro. Scopriamo anche che forse scriviamo perché alcune cose possiamo soltanto pensarle mentre lo facciamo, anche se quando mi domandano, molto spesso, perché scrivo, preferisco rispondere che lo faccio per non avere un capo e per non alzarmi presto. Oltretutto, credo che sia vero, molto di più di quanto ho appena finito di dire. Quel che è certo è che ricevere un premio come il Rómulo Gallegos comporta, oltre che essere un onore e una grande gioia, una specie di benevolo promemoria per il futuro.
 
Quando starò scrivendo il prossimo romanzo, e di tanto in tanto farò una pausa e alzerò lo sguardo e mi estranierò dall’immaginario che mi avrà assorbito per un lungo momento, potrò pensare che, contrariamente alle mie previsioni e alle mie apprensioni, una volta, molto lontano dal mio paese, vi sono stati lettori generosi e attenti che non soltanto condividono la lingua in cui mi esprimo ma che hanno voluto interessarsi a ciò che ho inventato e aggiunto al cumulo interminabile di ciò che allo stesso tempo non succede e succede o, ed è la stessa cosa, di ciò che avrebbe potuto e può essere.

Javier Marias
Discorso pronunciato a Caracas il 2 agosto 1995, durante la cerimonia per la consegna del Premio Rómulo Gallegos per il romanzo “Domani nella battaglia pensa a me”

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