Domenico Starnone
Caro Aristide, tu sicuramente non ti ricordi di me e, devo dire subito, io stessa conservo di te soltanto l’impressione del tuo cazzo mentre mi si faceva duro nella mano. So che questa lettera è inutile ma ho deciso di provarci lo stesso.
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All’epoca lavoravo per l’avvocato Nardino Ursi, gli tenevo in ordine uno schedario dentro cui raccoglieva tutto ciò che compariva su Napoli in riviste e giornali.
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Bene, una mattina è successo che mi ha mandata alla stazione per accogliere un tale che veniva apposta da Napoli a discutere del suo dattiloscritto.
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Mai visto un ragazzo piú brutto. Per di piú ti davi un sacco d’arie, parlavi della tua casa editrice – si chiamava Sillabario, mi pare, o Sillabe o Sillabo – come se fosse Einaudi, Mondadori o Feltrinelli. T’ho portato subito in ufficio, ma l’avvocato era in ritardo. Mi ha telefonato seccatissimo dal tribunale, mi ha detto di occuparmi di te, non sarebbe stato libero prima delle sei. T’ho portato a fare il giro del centro storico, dopo un po’ ti sei rilassato. È stata la prima volta che mi sono accorta che parlare cambia i lineamenti, specialmente se la persona parla con entusiasmo. Forse per questo non mi ricordo niente di te. Ora mi sembravi brutto, ora cosí cosí, a seconda della minore o maggiore energia delle frasi che pronunciavi. Abbiamo preso un toast, un caffè, a poco a poco mi sei diventato simpatico. Non sapevamo che fare e siamo andati al cinema Massimo.
Era il primo spettacolo, si proiettava un film con Mastroianni, La decima vittima. Per tutto il tempo, a bassissima voce, hai fatto commenti ironici. Solo sussurri all’orecchio, l’attrazione è cresciuta. Eravamo molto vicini. Mi sono accostata ancora di piú per sentire meglio quello che dicevi e anche perché il tuo respiro era gradevole. Avevi il gomito sul bracciolo e io pensavo: mi sta sentendo i seni, preme il ginocchio contro il mio, come devo reagire. Ero una ragazzina inesperta e non volevo che te ne accorgessi. Ti ho messo la mano su una gamba ridendo per le cose che dicevi, l’ho tenuta lí per qualche attimo, poi sono salita su quasi senza volerlo e t’ho cercato il cazzo. Oltre la stoffa dei pantaloni ho sentito un coso che pareva un rotolino di garza.
Non hai reagito, hai solo smesso di parlare. Ci sono rimasta male, ero certa che stavi provando le stesse cose che provavo io, invece no. Non hai parlato piú, fissavi lo schermo, ho fissato lo schermo anch’io. Che faccio, mi sono chiesta. Ho sbottonato due o tre bottoni dei tuoi calzoni, qualcosa si è mosso, mi sono rincuorata. Ti ho infilato la mano nelle mutande. Era grosso adesso, ha continuato a gonfiarsi. M’è piaciuto, devo dire, non il cazzo in sé, ma che ti diventasse duro per merito mio. Ora, ho pensato, farà qualcosa anche lui, mi metterà una mano tra le cosce. Invece hai seguitato a guardare lo schermo. Ti ho stretto forte, volevo che sentissi quanto ero contenta di tenertelo, ma c’è stato solo il tempo per quella stretta affettuosa. Un attimo dopo ho sentito il cazzo sussultare e mi hai bagnato la mano. L’onda del tuo piacere mi ha investita fin dentro la fica. Ho tirato fuori la
mano, piano, ho cercato la borsa, mi sono pulita col fazzoletto. Tu ti sei riabbottonato senza una parola, con gesti lenti per non fare rumore, e abbiamo guardato il film. Una volta fuori hai parlato con aria ispirata di com’era bella Ferrara.........
Autobiografia erotica di Aristide Gambia
Domenico Starnone
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