mercoledì 11 ottobre 2017

un cielo rosso e grigio con poche nuvole aguzze che sembravano braci



Ero in un letto, un letto da bambini, con le sbarre. C'era troppa luce, non riuscivo a vedere bene. Poi, velocemente, il sole calava, e vedevo incombere sopra di me un cielo rosso e grigio con poche nuvole aguzze che sembravano braci. C'erano i miei e mia sorella, intorno altra gente che potevo solo sentire. Avrei voluto unirmi a loro, ma ero troppo stanca, chiudevo gli occhi e mi addormentavo o finivo in un limbo che mi lasciava senza energie.
 
In un attimo era già mattina, il sole era giallo e bianco, la sua luce chiara ancora più accecante. Doveva essere presto, perché faceva fresco. Fuori non era rimasto nessuno, a parte me. Volevo alzarmi, bussare, entrare in casa. Ma la stanchezza mi inchiodava al letto, era più forte del desiderio, più forte dell'aria fresca che iniziava a darmi fastidio. Mi svegliai di nuovo e la stanchezza era andata via. Anche se ero una bambina, dopo tutte quelle ore di sonno ero indolenzita e non era facile muoversi. Mia sorella giocava con altri bambini, sentivo le sue urla di gioia e i loro passi, attraverso le sbarre li vedevo correre dalla veranda al prato, dal prato alla veranda, senza fermarsi, e avrei voluto tanto unirmi ai loro giochi.
 
I miei genitori parlavano con altri adulti, mio padre indossava un grembiule e girava la carne sul barbecue mentre qualcuno gli passava un bicchiere di vino. Non mi piaceva la carne, ma avevo fame. Chiamai mio padre, chiamai mia madre, chiamai mia sorella: nessuno si voltò verso di me. Erano troppo lontani pensai, non potevano sentirmi, però presto sarebbero venuti a controllare se mi ero svegliata. Cominciò a calare il buio, non arrivò nessuno: mi avevano dimenticata. Scavalcare le sbarre era difficile, ma ce l'avrei potuta fare: decisi di rimanere lì a fissare il cielo e mi dissi che non esistevo.
 
Ero adulta ormai e, mentre osservavo le mie braccia, sempre da più vicino, le odoravo, le baciavo, mi dicevo che era un peccato sprecare così il dono che avevo ricevuto, che la giovinezza non valeva nulla se non si trovava l'amore. Ero appoggiata con i gomiti a una staccionata di compensato, non c'era asfalto solo terra battuta e lui era lì, a poche decine di metri, il mio re David. Stava seduto a terra, accanto a una baracca di lamiera. Ancora non lo conoscevo, l'avrei conosciuto tra pochi minuti. Notai un particolare che non avevo notato allora. Stava salutando una ragazza di colore: lei era sottile come un fuscello e i suoi muscoli erano flessuosi, la pelle lucente, il viso meraviglioso come quello della cantante Nneka. Accarezzava David, gli metteva una mano sulla spalla, sembrava consolarlo, poi si allontanava. Erano amanti?, lei l'aveva respinto? Vedevo le spalle di David, spalle che promettevano il mondo, che promettevano il tutto, al di là del mondo stesso. Sapevo che tra un minuto si sarebbe voltato, mi avrebbe accarezzato con uno sguardo lento e impudico. Se quel giorno, appena lui mi aveva sorriso, il mio cuore si era ammalato di gioia, perché adesso non potevo ricordare il suo volto? "
 
Marco Gigliotti


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