Rivelazione
Il rapporto con il concetto di “traduzione” - di grande importanza quando si legge la poesia di un autore straniero - diventa cruciale per il lettore di Emily Dickinson. Per una ragione molto semplice: la poesia di Emily Dickinson è già di per sé una “traduzione”: essa nasce all’interno del concetto di traduzione. Scriveva Josif Brodskij:
La poesia di Emily Dickinson è principalmente traduzione perché la poetessa si impose come missione quella di tradurre verità metafisiche in linguaggio terrestre. Impresa improba, perché è Dickinson stessa la prima a rendersi conto dell’inadeguatezza della parola. La sua è dunque una costante lotta (proprio come quella di Giacobbe con l’angelo) per giungere a una sorta di “rivelazione”, che tanto più pare raggiunta, o comunque vicina, quanto più sfugge e torna a svanire, ridiventando lontanissima.
Una lotta impari e improba ingaggiata da Emily con la forza della disperazione nei confronti della “parola”. Da qui la sensazione costante di stordimento, di “estasi”. Da qui la necessità del ricorso a un linguaggio ellittico. Come scrive Silvio Raffo “dire la verità intera non si può, se non attraverso la narrazione di una serie di estasi”. Emily Dickinson definisce questa “serie di estasi” che dovrebbero portare alla “rivelazione” (sempre parziale, sempre effimera, sempre sfuggente) “bollettini dell’immortalità”.
La rivelazione è dunque da Emily costantemente ricercata e perseguita, anche attraverso l’uso di quelle che lei stessa definisce “ample words”, parole ampie, vaste. “Immortale è una parola ampia”, scrive la poetessa, ben conscia del fatto che - mentre lo sta scrivendo – il concetto estatico sfugge e diviene... terreno, umano, mortale. E così via, in una estenuante lotta che, più che alla Bibbia in senso ampio, ci fa pensare direttamente all’Apocalisse.
Franco Buffoni
Il rapporto con il concetto di “traduzione” - di grande importanza quando si legge la poesia di un autore straniero - diventa cruciale per il lettore di Emily Dickinson. Per una ragione molto semplice: la poesia di Emily Dickinson è già di per sé una “traduzione”: essa nasce all’interno del concetto di traduzione. Scriveva Josif Brodskij:
“Poesia è traduzione. Traduzione di verità metafisiche in linguaggio terrestre”.(Affermazione che, come corollario, ci porterebbe a riflettere su un’altra definizione stentorea, di Robert Frost: “Che cos’è la poesia? E’ ciò che si perde in traduzione”: una riflessione che però ci porterebbe troppo lontano...).
La poesia di Emily Dickinson è principalmente traduzione perché la poetessa si impose come missione quella di tradurre verità metafisiche in linguaggio terrestre. Impresa improba, perché è Dickinson stessa la prima a rendersi conto dell’inadeguatezza della parola. La sua è dunque una costante lotta (proprio come quella di Giacobbe con l’angelo) per giungere a una sorta di “rivelazione”, che tanto più pare raggiunta, o comunque vicina, quanto più sfugge e torna a svanire, ridiventando lontanissima.
Una lotta impari e improba ingaggiata da Emily con la forza della disperazione nei confronti della “parola”. Da qui la sensazione costante di stordimento, di “estasi”. Da qui la necessità del ricorso a un linguaggio ellittico. Come scrive Silvio Raffo “dire la verità intera non si può, se non attraverso la narrazione di una serie di estasi”. Emily Dickinson definisce questa “serie di estasi” che dovrebbero portare alla “rivelazione” (sempre parziale, sempre effimera, sempre sfuggente) “bollettini dell’immortalità”.
La rivelazione è dunque da Emily costantemente ricercata e perseguita, anche attraverso l’uso di quelle che lei stessa definisce “ample words”, parole ampie, vaste. “Immortale è una parola ampia”, scrive la poetessa, ben conscia del fatto che - mentre lo sta scrivendo – il concetto estatico sfugge e diviene... terreno, umano, mortale. E così via, in una estenuante lotta che, più che alla Bibbia in senso ampio, ci fa pensare direttamente all’Apocalisse.
Franco Buffoni
Franco Buffoni racconta Emily Dickinson