sabato 12 dicembre 2015

Marina Cvetaeva, grande poetessa e donna “contro”.


Marina Cvetaeva, grande poetessa e donna “contro”.

articolo di link esterno
@ Augusto Benemeglio

1.Una donna che andò fatalmente incontro al suo destino tragico
Apri il giornale: calunnie, apri il giornale:ammanchi. Ogni colonna è un’accusa, ogni paragrafo nausea. Questi versi sembrano scritti ieri. E invece risalgono a quasi un secolo fa, e sono stati scritti da una sorta di Giovanna d’Arco della poetica e dell’intelligenza delle cose, in un’epoca di profondi , terribili e drammatici sconvolgimenti storici e sociali , come la rivoluzione russa, “ in cui non sorridevano che i morti, lieti della loro pace”. Parliamo di Marina Cvetaeva , una donna che andò , fatalmente, incontro al suo destino tragico, scegliendo la via più impervia e difficile, quella di donna e artista “contro”, che combatte la consuetudine e il gusto corrente, che cerca la via (sempre dolorosa) della verità, e non della sopravvivenza, la via in cui si nega se stessi e si rinuncia ad ogni facile vantaggio e comodità del vivere. Tutta la sua vita e tutta la sua poesia furono una sfida gettata alla consuetudine , al perbenismo, alle forme accettate, un atto di rivolta e di coraggio e, spesso, di oltraggio, anche verso se stessa.
“Bisogna scrivere cose inaudite , compiere scoperte e vivere istanti straordinari: questa è la vita, tutto il resto è sciocchezza”
aveva scritto Pasternak, che amava e ammirava moltissimo la Cvetaeva, l’unica poetessa che nel pieno di atteggiamenti ultrapatriottici e sciovinisti aveva avuto la temerarietà di esaltare la Germania (aveva origini tedesche-polacche) per la sua storia e civiltà, dichiarandosi ostentatamente avversa alla rivoluzione d’ottobre, scrivendo versi monarchici e sanfedisti, pur essendo consapevole che la carta dello zar era quella perdente. Tendeva sempre, organicamente, fatalmente, ad andare contro corrente , sentiva il fascino della negazione, della causa perduta, dell’autodistruzione come speranza inconfessata e irrazionale.
E dove prenderò il buon senso?…
Io sono quella che dice
occhio per occhio
sangue per sangue”
2. Una donna capace di tempeste di passioni
Una donna capace di tempeste di passioni, come l’amore impetuoso che ebbe per il comandante moscovita Konstantin, uomo dalla doppia condanna a morte (prima da parte dei bianchi e poi dei bolscevichi):
L’amore è carne e sangue
un fiore tinto nel suo stesso sangue
Credete veramente che l’amore
sia una conversazione a tavolino?…
E in quell’aria beata non smettere
finché puoi, di commettere peccati!
Una donna che scrisse migliaia di poesie, diciassette poemi, otto drammi in versi, narrativa, saggistica, diari di memorie, lettere bellissime e tragiche, in un periodo terribile ed epico come quello della rivoluzione russa e delle due guerre mondiali. Una donna che era nata bella, intelligente, sensibile, nobile, ricca e famosa, la regina dei circoli letterari moscoviti, e morì in uno sperduto villaggio della Tataria (Elabuga), nella più assoluta indigenza e povertà, in una squallida stanza -stalla di una casa di contadini, sola, abbandonata e dimenticata da tutti, perfino dal figlio Georgij (“Mur”), che un giorno prima di morire le disse con disprezzo: “Mamma, sembri una lercia vecchiaccia di paese”, e non andò neppure al suo funerale.

3. Era coraggiosa, categorica, perentoria, parola di Pasternak. Marina era stata preveggente in tutto , aveva avvertito già nel 1908, appena sedicenne, la precarietà di quel mondo in cui viveva e l’imminenza di grandi sconvolgimenti:
“Tra poco questo mondo perirà! Guardalo attentamente, di nascosto… Guarda, finché c’è ancora il nostro pioppo, finché la nostra casa non è in vendita”.
La sua casa non fu venduta, ma saccheggiata e devastata, e successivamente, data alla fiamme. E lei avrebbe affrontato, da sola, con due bambine, (il marito combatteva negli eserciti bianchi) gli effetti drammatici della rivoluzione d’ottobre, espropriata di tutti i suoi beni e costretta a vivere, come una prigioniera, nella soffitta della sua grande e bella casa di Mosca. In quell’inverno terribile avrebbe patito ogni bruttura: freddo, fame, tormenti, umiliazioni, sofferenza, tragedia familiare. Avrebbe dovuto bruciare la scala per scaldarsi dal freddo e issarsi sulla soffitta con una corda ; senza un rublo, sarebbe stata costretta a elemosinare – vanamente – cibo per sé e le sue due figlie, Ariadna (“Alja”) e Irina. Quest’ultima bimba, di solo due anni d’età, sarebbe morta di fame. Ma lei, cogli occhi verdi e il viso segnato, la bocca severa, lo sguardo sprezzante, non avrebbe ceduto, non avrebbe piegato il capo, non avrebbe versato una lacrima, non avrebbe accettato – mai – alcun compromesso… “Marina – dirà Pasternak – era coraggiosa, categorica, perentoria, e la sua anima cercava distacchi veri, violenti, dolorosi, definitivi”. Esule , dal 1922, per tre anni avrebbe aggiogato il marito alla carretta a mano, trascinandosi con lui e i due figli da un luogo all’altro della Cecoslovacchia: da Gornia a Dolina , Mokropsa, a Ilovisce , a Novye Dvorj, a Vsnora, a Praga, vagando sotto la pioggia per i sentieri fangosi e impraticabili della campagna ceca , da casa a casa , da radura a radura, da fosso a fosso, da strada a strada., da periferia a periferia, finché, nel 1926, sarebbe approdata a Parigi.
Ma anche lì, dove era stata sedicenne come brillante studentessa alla Sorbona , le cose non sarebbero granché mutate:
“Il quartiere in cui viviamo è orribile…Un canale putrido, il cielo invisibile per via dei comignoli, solo fuliggine e fracasso. Impossibile passeggiare (neanche un cespuglietto). E così passeggiamo lungo un canale putrido. E se qualche volta s’apre un bosco esso è coperto di sputi, di scatole di sardine e cocci di bottiglie”
La vita quotidiana, che aveva sempre detestato ferocemente
(“non so vivere, io sono assente dalla mia vita, non sono a casa”)
quella vita quotidiana , sopra la quale ci si può elevare , sulla quale si può sputare, ma alla quale – spesso – ci si deve sottomettere, l’avrebbe “moralmente” uccisa.

4. La sua era una vita spaventosa
Spazzare, prender l’acqua, lavare i panni, portar carbone, accendere la stufa, mettere in pentola della pessima carne di cavallo, lavare i piatti, portare fuori la spazzatura. Non c’erano mai soldi abbastanza per il gas, la luce, il carbone, il lattaio, il panettiere, e l’affitto di casa (il marito faceva la comparsa per racimolare qualcosa). Non c’era spazio, non c’era tempo, non c’erano le scarpe con cui camminare, a volte non trovava neppure un tavolino per scrivere (era la sua condanna, la sua dannazione:
“E un invito d’inferno, la letteratura
 e confesso che vi andai gioiosamente:
 ma da lì nessuno torna indietro).
E tutto era sporco.
“Sono eternamente in mezzo alla sporcizia, eternamente con spazzole e scopa in mano, eternamente di fretta, eternamente tra fagotti, cherosene e cenere: un immondezzaio vivente…In ginocchio faccio la serva – non si sa di che cosa! Sono tutta sporca di cenere , ho le mani di un carbonaio – non riesco a mandare via il nero!”
La sua era una vita spaventosa che continuò a divorare le sue energie – scriverà Olga Ivinskaja , la “Lara” del dottor Zivago, l’amante di Psternak , che la conobbe bene. E poi la perenne malattia del marito, la mancanza di qualsiasi sistemazione, e i suoi rapporti con gli altri emigranti che peggioravano continuamente per via del carattere di Marina, “altera, orgogliosa, regale, aggressiva, tutta limiti, tutta no, tutta pareti e tutta rifiuti”. Comunque – continua Olga – Marina era incapace di lottare per il proprio benessere , e non lo voleva nemmeno. Diceva:
“Ascolta, le verità meschine e i nobili inganni non esistono, esistono solo inganni meschini e nobili verità”.
Aveva un’intelligenza acutissima e lucidissima, una chiaroveggenza fredda e vertiginosa. Sapeva di essere fatta soltanto di particelle di dolore – l’unica esperienza che aveva del mondo. Non conosceva altro. Viveva di dolore, come una “scorticata viva”, come una Maddalena laica sui carboni ardenti, ai piedi di Cristo: –
“Lavo con nardo d’anfora
I tuoi purissimi piedi”, –
che spargeva insieme profumi e dolori.
“Tutto sta nel fatto che il cuore comincia a battere – e non fa nulla se va in mille pezzi! Io mi sono sempre fatta in pezzi e tutti i miei versi sono letteralmente frammenti argentei del mio cuore”
5. I versi erano il suo corpo
I versi – scrive Pietro Citati – erano il suo corpo. E tra lei e le poesie, tra le lettere e le poesie non c’era mai la minima distanza o fessura. Il suo capolavoro era lei viva, unione di corpo e di versi. Ma anche la musica, che Marina amava moltissimo. Aveva fatto studi musicali in gioventù (la madre era stata un’apprezzata pianista, allieva di Rubinstein), amava Blok, il poeta teorizzatore di una concezione musicale, non solo della poesia, ma della vita e della storia. E infatti la Cvetaeva avvertiva i suoi lettori:
“Il mio libro deve essere eseguito come una sonata. I segni sono le note. Sta al lettore realizzare o deformare”
La sua poesia è tutta fuoco, entusiasmo, passione, esaspera i suoi sentimenti, tramuta le pene d’amore in un grido convulso, ma non dimentica il ritmo, l’uso rigoroso delle rime e delle assonanze , con un timbro eccezionalmente alto e teso e un’orchestrazione straordinaria di suoni funzionali in connessione dei significati. Assolutamente indipendente da scuole e tendenze, dice Erhenburg,
“riuniva in se la cortesia antica e lo spirito ribelle…un estremo orgoglio e un’estrema semplicità…La sua vita fu un gomitolo di illuminazioni e di sbagli”.

In lei – dirà Orlov – convivevano capricciosamente due anime , due volti: la signorina entusiasta, ammiratrice di Rostand, immersa in sogni libresco-romantici e la rivoltosa recalcitrante dal sangue sfrontato, che le faceva dichiarare con ostentazione aristocratica che era avversa alla rivoluzione.
“Io sono molti poeti insieme, e come questo abbia potuto in me affiatarsi è in fondo il mio segreto…Ma sappiate che sulla strada della vita io cederò sempre il passo…Tratto l’essere umano che c’è in me come tratterei un cane : quando mi annoia lo metto a catena..”
Le sue non erano solo parole, era la sua vita, fatta di passioni tempestose e tanto diverse l’una dall’altro, che le consentivano sia d’amare carnalmente
(“Chi l’ha voluto m’ha baciato!
E io l’ho amati tutti quanti! “)
che spiritualmente , come nel caso di Pasternak , con cui esisteva una grande affinità spirituale e poetica:
“Boris, Boris, come saremmo stati felici insieme…in questo mondo, ma soprattutto in quell’altro, che è già tutto dentro di noi”
6. L’orizzonte è straniero per te
E proprio Boris Pasternak, nel 1935, va a trovarla a Parigi.
“L’orizzonte è straniero, per te. E straniera è la pioggia che picchia sui fossi e i cappelli
e l’estraneità ha trasformato in un albero
l’artista straniero: quasi come una fiaba”
La sua visita fu una spruzzata di luce in quegli anni di esilio pieni di tormenti.
“Marina – disse Pasternak – era in dubbio se restare a Parigi o tornare in patria. Chiese la mia opinione. Io non avevo un’opinione precisa, non sapevo che cosa consigliarle..” Ma probabilmente con tutte le repressioni di massa che erano seguite all’assassinio di Kirov , Pasternak avrebbe potuto consigliare a Marina qualcosa di più chiaro e preciso. Fu per questo che, dopo la morte di Marina e la rovina della sua famiglia (il marito fu condannato a morte, il figlio Mur morì di tubercolosi, sopravvisse la sola Ariadna, detta Alja), Pasternak si rimproverò e si sentì in qualche modo responsabile della sua morte.
“Se è vero che Marina è morta , la colpa è mia, e quale colpa . Nessuno potrà mai perdonarmelo”,
disse quando gli fu recata la funebre notizia. Intanto, il marito della Cvetaeva, Sergej Efron, e la figlia Alja, che avevano aderito al comunismo, furono coinvolti nell’omicidio di un agente sovietico, avvenuto in Svizzera, nel settembre 1937. Per questo fatto Marina subì terribili interrogatori in un commissariato di Polizia , ma la sua completa estraneità alla cosa fu tanto evidente che riuscì a scampare ad altre persecuzioni. Efron e Ariadna dovettero fuggire in Urss ,mentre Marina, col figlio Mur, rimase a Parigi, e per arrotondare le magrissime entrate (soprattutto per aiutare il figlio, ormai adolescente, a cui era legata morbosamente) si diede da fare per organizzare una serata di poesia a pagamento, ma la cosa non funzionò. Marina, spossata, esasperata, s’indignò molto: “L’indignazione: ecco quello che cresce in me di anno in anno, di giorno in giorno, di ora in ora. L’indignazione. Il disprezzo. Il peso “delle offese”, che non fa che crescere , fin dalla mia infanzia. Tutto questo è ingiusto. E’ insensato. E’ indegno di Dio”. Intanto passano i mesi e Marina non ha notizie da parte del marito e della figlia, i rapporti con gli esiliati russi si fanno sempre più tesi e difficili:
“Non c’è più nulla da fare! Gli emigranti mi cacciano via!…Ma sappiate una cosa: anche là io sarò dalla parte dei perseguitati, e non da quella dei persecutori, anche là sarò con le vittime, e non con i carnefici…”
Il 12 giugno 1939, quasi due anni dopo la partenza di Sergej e Alja , Marina e Mur lasciano Parigi, passano Le Havre, via mare a Varsavia e quindi Mosca dove giungono sei giorni dopo. La famiglia si riunisce, finalmente, piena di speranze per il futuro; vanno a vivere in una minuscola dacia nel villaggio di Bolsevo, nei pressi di Mosca. Ma tre mesi dopo Ariana viene arrestata e lo stesso accade qualche giorno dopo a Sergej , che in seguito sarà fucilato.
“Oggi son tornata dove nacqui
…Ecco quello che mi ricompensa:
un abisso ha inghiottito tutti i miei
 e la casa paterna è devastata”
7. Il dolore era per lei una fonte di vita
Dirà la figlia Alja – che diventerà grande amica di Olga Ivinskaja – rileggendo i quaderni della madre che quel suo continuo tormento non voleva lacrime, ma azioni; non aveva bisogno di un rimpianto, ma di una risurrezione. Anche se aveva deciso molto tempo prima di essere straniera in terra , anche se aveva scelto l’infelicità, il martirio e il dolore:
(“Di chi, se non di lei, si potrà dire che il dolore era una fonte di vita, e che proprio attraverso il dolore si realizzava un legame con l’universo della poesia?)
Marina aveva un folle amore per la vita, un’avidità convulsa, febbrile di viverla. Ma si trovò nel deserto più assoluto e totale, senza nessun aiuto, e allora questi sentimenti erano improvvisamente sostituiti, nel suo animo da pensieri di morte…
”Oggi è la festa di Giovanni Evangelista. Ho quarantotto anni. Mi faccio gli auguri. Pfù pfù pfù tocca ferro scampala! Mi faccio gli auguri per i miei quarantotto anni di anima ininterrotta… Stoviglie acqua e lacrime…Nessuno capisce, nessuno sa che già da un anno cerco con gli occhi un gancio, e non ne trovo, perché ormai l’elettricità è arrivata ovunque. Non ci sono più i lampadari di una volta… E’ un anno che mi misuro addosso la morte. E’ tutto così mostruoso, così terribile …E io non voglio morire. Voglio non essere…”
8. Cercava disperatamente una casa
Cercava disperatamente una casa, era stata dapprima in una stanzetta della cognata Lili Efron, nel vicolo Merzliakovskij, ora stava i una cameretta della casa di riposo degli scrittori, in via Gercen, ma le avevano detto che la potevano tenere solo per una settimana.Pasternak si diede da fare, andò a trovare Faadev , niente da fare, Marina si rivolse al Litfond, al fondo per assistenza scrittori, niente da fare.
“Mosca non mi accetta e io non posso estirpare da me il senso del ‘diritto’…Noi abbiamo colmato mosca di regali. E Mosca mi caccia, mi bandisce”.
Il padre di Marina era stato il promotore e il fondatore del Museo delle Belle Arti (oggi museo Puskin) e aveva donato al museo Rumjancev (oggi Biblioteca Lenin) tre biblioteche di enorme valore: la sua, quella di suo padre e quella di sua moglie. Sua madre era stata una valente pianista e lei aveva incantato per anni i salotti di Mosca con i suoi versi e la sua brillantissima, poetica, beffarda conversazione.

9. La dama polacca
La chiamavano “dama polacca”, ma la Russia era dentro di lei, nel suo cuore smisurato, nel suo desiderio metafisico. Ma ora un’angoscia bestiale di annullamento e di distruzione la pervade, con i suoi pensieri lucidi, folli e profetici. Si guarda allo specchio con ribrezzo:
E sarei io questa?..” Continuando a spostarmi da un luogo all’altro, comincio a perdere il senso della realtà: diminuisco giorno dopo giorno, come quel gregge che lasciava su ogni steccato un fiocco di lana…Resta solo il mio fondamentale no a qualsiasi forma di compromesso.”
E infatti si riusciva a vivere per qualche giorno in una dacia altrui in condizioni relativamente decenti, veniva assalita dai rimorsi, era tormentata dalla coscienza. Suo marito e sua figlia stavano languendo chissà dove , in qualche camera di tortura.
”Ho vergogna di essere ancora viva… L’unica cosa russa che c’è in me è la coscienza , che non potrebbe mai permettermi di essere felice dell’aria, della quiete , dell’azzurro del cielo sapendo che non dimentico neppure un istante che in quello stesso istante qualcun altro sta soffocando nell’arsura, tra le pietre…La mia vita è molto brutta. E’ una non vita. Adesso io sono uccisa, adesso io non ci sono e non so se ci potrò essere ancora…Sono molto sconcertata e molto sventurata…”
10. Mi spiace soltanto per il sole e per la musica
Riesce a trovare una stanza all’ultimo piano di una casa sul viale Pokoìrovskij, al numero 14, e subito dopo a Mosca cominciano a esplodere le prime bombe tedesche, e le schegge dei proiettili antiaerei ricadono sui tetti insieme alle incendiarie…Marina vuole proteggere il figlio Mur, l’unico rimastole accanto, chiede aiuto a Pasternak, che non fa nulla. Decide allora di partire con gli evacuati, di andare in Tataria insieme all’Unione Scrittori.Cerca solo di salvare il figlio Mur e i suoi ricordi:
“Mia madre ci abbeverò alla vena segreta della lirica e le sue ultime parole prima della prematura morte furono queste: Mi spiace soltanto per il sole e per la musica”.
Ricorda il suo grande unico impossibile amore, Pasternak, con cui non s’erano mai scambiati neppure un vero bacio, Boris, da cui tutto la univa spiritualmente e tutto la separava dal punto di vista del quotidiano, che è l’aspetto che domina, in fondo, ogni mortale , quello pratico e caratteriale.
“Caro, strappa il tuo cuore pieno di me. Non tormentarti. Vivi. Non pensare a tua moglie, a tuo figlio. Ti concedo completa assoluzione da tutti e da tutto. Prendi tutto quello che vuoi, finché puoi ancora prendere! Ricorda che il sangue è più vecchio di noi, e specialmente il tuo, semita. Non addomesticarlo. Prendi, afferra ogni cosa dalla tua altezza lirica, no: epica!
11. E’ condannata alla poesia e all’infelicità.
Prima di partire per Mosca aveva detto:
“In ogni caso non potrei mai vivere con lui. Lo amo troppo…Con Boris non posso vivere, ma voglio un figlio da lui, perché egli viva attraverso me. Se questo non avverrà, non avrò realizzato la mia vita, il mio vero proposito”.
E Pasternak, che pure l’amava, era perfettamente d’accordo: Marina è un concentrato di isteria femminile…è condannata alla poesia come il lupo all’ululato, e allo stesso modo è condannata all’infelicità. Percepiva con il suo istinto poetico, il luogo ove l’aspettava una valanga, una tempesta, una passione e solo dopo la passione, quando si spezzavano i legami preziosi, quando il destino cambiava bruscamente strada, sorgeva la dissonanza dei nuovi sentimenti, delle illuminazioni, dei versi, e s’accendevano le scintille della poesia. Il 21 agosto 1941 , Marina , insieme a suo figlio Mur, arriva a Elabuga. Va ad abitare nella casa di Michail Bredelscikov e sua moglie Anastasia, che la ricordano così:
“Era alta, un po’ curva, magrissima , con i capelli bianchi…Insomma una vera strega…
E lei aveva scritto di sé, qualche anno prima:
“L’oro dei miei capelli si sta facendo bianco a poco a poco Non piangetelo! Tutto è già avvenuto, tutto s’è già composto nel mio cuore…
Qualche giorno dopo, Marina va a Cistopol, una cittadina più grande, a cercare un lavoro e chiedere l’autorizzazione a risiedere nella città , perché Elaguba è un luogo davvero orrendo. Fa domanda per un posto da lavapiatti in una mensa del Fondo Letterario.
So soltanto lavare i piatti. Un tempo sapevo scrivere anche versi. Ora non più. Ma del resto a cosa serve scrivere versi.Ad eccezione dei parassiti, nei loro vari aspetti, tutti sono più importanti di noi poeti, e tuttavia io non muterei la mia con nessun’altra attività”.
12. Esistono solo omicidi / Al mondo nessuno si è mai suicidato.
Il mattino del 27 agosto viene accolta da una famiglia che l’ammirava molto come poetessa. Declama i versi che aveva scritto qualche anno prima e risplende per l’ultima volta. I suoi occhi da gialli ritornano verdi, il viso, grigio, segnato e gonfio, ringiovanisce ; e gli ascoltatori hanno come l’impressione di essere visitati da una creatura di un altro mondo. Ma il posto di lavapiatti le viene negato, e anche l’autorizzazione. Nessuno l’aiuta. Marina torna a Elabuga la mattina del 28 agosto, rimane due giorni con il figlio in un mutismo ostile. Sente che lui la disprezza. Il terzo giorno , i padroni di casa la lasciano sola. Mur è uscito . Marina cerca un pezzo di corda. Prende una sedia, getta la corda sopra un
“chiodo pesante , come quelli dei gioghi, delle reti da pesca, anche se forse è un po’ basso per impiccarsi. Ma per strozzarsi va bene; è più semplice…”

Sappiate che esistono solo omicidi
Al mondo nessuno si è mai suicidato
13. Vivere è splendido.
Ma noi viviamo male. Prima di morire non si era tolta neppure il grembiule con la tasca davanti, che aveva infilato per sbrigare le faccende di casa.
“Vorrei essere sepolta nel cimitero degli Uomini di Dio – aveva scritto anni prima -, a Tarusa, sotto un cespuglio di sambuco, in una di quelle tombe con il colombo d’argento sulla lapide , là dove crescono le fragole più rosse e più grosse di quei posti. Ma se proprio non sarà possibile , vorrei tanto che ci mettessero una pietra della cava di Tarusa con scritto:“Qui avrebbe voluto giacere Marina Cvetaeva”
Ma anche questo desiderio non si avverrò . La tomba di Marina rimase sconosciuta , ma sotto uno di quei pini dell’antico cimitero di Elaguba la sorella di Marina, Asja, mise una croce con la scritta: In questo angolo del cimitero è sepolta Marina Ivanovna Cvetaeva ( 26 settembre 1892-31 agosto 1941) e da quell’angolo sperduto nella regione tatara , sentiamo ancora la sua voce che ci invita:
“Passante, fermati!
Strappa uno stelo selvatico per te
e una bacca – subito dopo, per me.
Niente è più dolce di una fragola di cimitero.
 Ma non stare così tetro,
la testa chinata sul petto
 Con leggerezza pensami,
con leggerezza dimenticami
… e che non ti turbi mai
la mia voce sottoterra…
Tutto passa , resta solo il vero”….
“ Vivere è splendido. Ma noi viviamo male”
articolo di link esterno
@ Augusto Benemeglio

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