L'attesa amorosa
[...]
1.2.3. il potere di chi è atteso
Far attendere è una forma di potere che colui che è atteso esercita, più o meno consapevolmente, su chi attende. Aspettare, al contrario, è segno di dipendenza e di assoggettamento rispetto alle condizioni dettate dall’altro. Nella dinamica dell’attesa amorosa il potere è, infatti, nelle mani di chi fugge: è lui che detta i tempi, mentre chi aspetta ne è schiavo. Uno dei momenti più drammatici dell’attesa è quello in cui ci si accorge di non poter più fare a meno dell’altro. Alla nostalgia per la distanza o per l’assenza si aggiunge in questi casi la dolorosa sensazione, simile a una ferita, di aver perso la propria libertà: «L’attesa – scrive Barthes – comporta una ferita (una prova) supplementare in quanto manifesta al soggetto innamorato la sua dipendenza nei riguardi dell’oggetto amato».
A partire dal momento in cui si accorge di essere caduto nella trappola della dipendenza – «sono perso! Può fare di me ciò che le pare»–, il soggetto innamorato inizia però talvolta, paradossalmente, a usare tutti i mezzi che ha a disposizione per «preservare lo stesso spazio della dipendenza». Sentirsi dipendenti significa infatti non recidere il filo che ci lega indissolubilmente alla persona amata. La promessa di fedeltà, che impareremo a riconoscere come uno dei riti caratteristici delle attese romanzesche di cui ci occupiamo, è proprio una delle strategie messe più o meno consapevolmente in atto dal soggetto per mantenere in vita il proprio stato di dipendenza. Non è un caso allora che, per descrivere il fortissimo senso di privazione da cui il soggetto innamorato è colpito nell’attesa, Barthes non esiti a parlare di «sévrage», termine che indica, nella lingua francese, tanto lo svezzamento dal seno materno, il primo vero distacco dalla madre, quanto il percorso di disintossicazione a cui viene sottoposto chi è affetto da tossicodipendenza.
Per la speciale dinamica che vi entra in gioco, l’attesa può essere sfruttata però, in altri casi, anche come un momento di riequilibrio tra le parti: lì dove il potere era concentrato esclusivamente nelle mani di uno dei due membri della coppia, la fuga diventa lo strumento attraverso cui ridisegnare i ruoli. È il caso emblematico, come vedremo, del rapporto del Narratore proustiano con Albertine: se nella Prigioniera il potere era concentrato esclusivamente nelle mani del Narratore geloso, la fuga offre ad Albertine la possibilità di riequilibrare le parti. Fuggendo, è lei a poter dettare i tempi e, da prigioniera quale era, rendere schiavo il Narratore.
Per la sua capacità di mettere in luce la dinamica potere-dipendenza, l’attesa amorosa riflette e amplifica, portandolo alle estreme conseguenze, un carattere che è intrinseco, a ben guardare, in ogni attesa. Nella società e nella storia, l’attesa è infatti il destino degli umili e degli ultimi. Riesce a non sottostare alle attese, grandi e piccole, estemporanee o pluriennali che siano, solo colui che è in grado di affrancarsene, ovvero chi ha il potere per farlo. Il sociologo Giovanni Gasparini descrive in termini molto chiari ed esatti il modo in cui l’attesa si fa specchio, nella società e nella storia, di una forte dinamica di squilibrio tra le parti:
L’attesa si può interpretare come un fenomeno di scambio e di potere tra attori, nel senso che chi detiene più potere riesce a non attendere ma a far attendere. […] L’osservazione corrente e il sentimento comune indicano che sono soprattutto i de-privilegiati e i senza potere quelli che attendono, e che «il segreto della non-attesa è il talento di saper far attendere gli altri». Vi è una grande varietà di situazioni di attesa, tratte dalle pagine della letteratura ma anche dalle esperienze quotidiane degli individui nella società, in cui lo squilibrio legato a questa dinamica di potere e dipendenza emerge con particolare evidenza. In un numero tematico dedicato all’attente, la rivista francese di sociologia e letteratura “Autrement” individua alcune situazioni esemplari in cui chi aspetta si ritrova a sottostare, in uno stato di profonda impotenza, a condizioni che non è assolutamente in potere di modificare a suo favore:
Se l’attesa ci appare ingloriosa, e quasi anacronistica, è perché essa è la sorte dei più umili, di coloro che, a un certo punto, sono spossessati del minimo potere di agire, di fare avvenire un determinato avvenimento attraverso il loro operare. Non è il pilota che attende l’arrivo dell’aereo ma il passeggero; non è il chirurgo che attende ma la famiglia. E, dopo il suo risveglio, l’operato. Non è il giudice, è l’accusato che attende il verdetto; il carcerato, non la guardia, che attende la liberazione. Lo studente, il “paziente”, il disoccupato, l’innamorata, la madre, il popolo… È Penelope che attende Ulisse. Ad ogni attesa, il bambino che è in noi si risveglia. Dipendenza, impotenza, sconforto. Aspettare […] è lasciare agli altri, e a volte solo al tempo, il potere.
Oltre a generare un inevitabile senso di impotenza, dovuto essenzialmente all’impossibilità per il soggetto di accorciare il tempo che lo separa dalla realizzazione di ciò che aspetta – in questo senso il vero nemico, come suggeriva la citazione, non è tanto l’altro quanto il tempo stesso –, la sensazione di dipendenza provata da chi attende può provocare, però, anche un effetto di vero e proprio panico, come se in gioco fosse, ben più che l’appagamento di un bisogno accessorio, la possibilità stessa di sopravvivere. La metafora animale più adatta, allora, a indicare questo stato è senza dubbio quella del “pesce fuor d’acqua”.
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Elisabetta Abignente tratto da Le parole e le cose
pagine tratte dal libro
Quando il tempo si fa lento. L’attesa amorosa nel romanzo del Novecento: M. Proust, Th. Mann, G. García Márquez.
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1.2.3. il potere di chi è atteso
Far attendere è una forma di potere che colui che è atteso esercita, più o meno consapevolmente, su chi attende. Aspettare, al contrario, è segno di dipendenza e di assoggettamento rispetto alle condizioni dettate dall’altro. Nella dinamica dell’attesa amorosa il potere è, infatti, nelle mani di chi fugge: è lui che detta i tempi, mentre chi aspetta ne è schiavo. Uno dei momenti più drammatici dell’attesa è quello in cui ci si accorge di non poter più fare a meno dell’altro. Alla nostalgia per la distanza o per l’assenza si aggiunge in questi casi la dolorosa sensazione, simile a una ferita, di aver perso la propria libertà: «L’attesa – scrive Barthes – comporta una ferita (una prova) supplementare in quanto manifesta al soggetto innamorato la sua dipendenza nei riguardi dell’oggetto amato».
A partire dal momento in cui si accorge di essere caduto nella trappola della dipendenza – «sono perso! Può fare di me ciò che le pare»–, il soggetto innamorato inizia però talvolta, paradossalmente, a usare tutti i mezzi che ha a disposizione per «preservare lo stesso spazio della dipendenza». Sentirsi dipendenti significa infatti non recidere il filo che ci lega indissolubilmente alla persona amata. La promessa di fedeltà, che impareremo a riconoscere come uno dei riti caratteristici delle attese romanzesche di cui ci occupiamo, è proprio una delle strategie messe più o meno consapevolmente in atto dal soggetto per mantenere in vita il proprio stato di dipendenza. Non è un caso allora che, per descrivere il fortissimo senso di privazione da cui il soggetto innamorato è colpito nell’attesa, Barthes non esiti a parlare di «sévrage», termine che indica, nella lingua francese, tanto lo svezzamento dal seno materno, il primo vero distacco dalla madre, quanto il percorso di disintossicazione a cui viene sottoposto chi è affetto da tossicodipendenza.
Per la speciale dinamica che vi entra in gioco, l’attesa può essere sfruttata però, in altri casi, anche come un momento di riequilibrio tra le parti: lì dove il potere era concentrato esclusivamente nelle mani di uno dei due membri della coppia, la fuga diventa lo strumento attraverso cui ridisegnare i ruoli. È il caso emblematico, come vedremo, del rapporto del Narratore proustiano con Albertine: se nella Prigioniera il potere era concentrato esclusivamente nelle mani del Narratore geloso, la fuga offre ad Albertine la possibilità di riequilibrare le parti. Fuggendo, è lei a poter dettare i tempi e, da prigioniera quale era, rendere schiavo il Narratore.
Per la sua capacità di mettere in luce la dinamica potere-dipendenza, l’attesa amorosa riflette e amplifica, portandolo alle estreme conseguenze, un carattere che è intrinseco, a ben guardare, in ogni attesa. Nella società e nella storia, l’attesa è infatti il destino degli umili e degli ultimi. Riesce a non sottostare alle attese, grandi e piccole, estemporanee o pluriennali che siano, solo colui che è in grado di affrancarsene, ovvero chi ha il potere per farlo. Il sociologo Giovanni Gasparini descrive in termini molto chiari ed esatti il modo in cui l’attesa si fa specchio, nella società e nella storia, di una forte dinamica di squilibrio tra le parti:
L’attesa si può interpretare come un fenomeno di scambio e di potere tra attori, nel senso che chi detiene più potere riesce a non attendere ma a far attendere. […] L’osservazione corrente e il sentimento comune indicano che sono soprattutto i de-privilegiati e i senza potere quelli che attendono, e che «il segreto della non-attesa è il talento di saper far attendere gli altri». Vi è una grande varietà di situazioni di attesa, tratte dalle pagine della letteratura ma anche dalle esperienze quotidiane degli individui nella società, in cui lo squilibrio legato a questa dinamica di potere e dipendenza emerge con particolare evidenza. In un numero tematico dedicato all’attente, la rivista francese di sociologia e letteratura “Autrement” individua alcune situazioni esemplari in cui chi aspetta si ritrova a sottostare, in uno stato di profonda impotenza, a condizioni che non è assolutamente in potere di modificare a suo favore:
Se l’attesa ci appare ingloriosa, e quasi anacronistica, è perché essa è la sorte dei più umili, di coloro che, a un certo punto, sono spossessati del minimo potere di agire, di fare avvenire un determinato avvenimento attraverso il loro operare. Non è il pilota che attende l’arrivo dell’aereo ma il passeggero; non è il chirurgo che attende ma la famiglia. E, dopo il suo risveglio, l’operato. Non è il giudice, è l’accusato che attende il verdetto; il carcerato, non la guardia, che attende la liberazione. Lo studente, il “paziente”, il disoccupato, l’innamorata, la madre, il popolo… È Penelope che attende Ulisse. Ad ogni attesa, il bambino che è in noi si risveglia. Dipendenza, impotenza, sconforto. Aspettare […] è lasciare agli altri, e a volte solo al tempo, il potere.
Oltre a generare un inevitabile senso di impotenza, dovuto essenzialmente all’impossibilità per il soggetto di accorciare il tempo che lo separa dalla realizzazione di ciò che aspetta – in questo senso il vero nemico, come suggeriva la citazione, non è tanto l’altro quanto il tempo stesso –, la sensazione di dipendenza provata da chi attende può provocare, però, anche un effetto di vero e proprio panico, come se in gioco fosse, ben più che l’appagamento di un bisogno accessorio, la possibilità stessa di sopravvivere. La metafora animale più adatta, allora, a indicare questo stato è senza dubbio quella del “pesce fuor d’acqua”.
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Elisabetta Abignente tratto da Le parole e le cose
pagine tratte dal libro
Quando il tempo si fa lento. L’attesa amorosa nel romanzo del Novecento: M. Proust, Th. Mann, G. García Márquez.