martedì 21 aprile 2015

fare i conti con l'infanzia

fare i conti con l'infanzia


Io credo di essere diventato scrittore e filologo da bambino, quando, per motivi legati al carattere dei miei genitori e a certi episodi che si ripetevano frequentemente in casa mia, rimanevo disorientato di fronte all’incoerenza soprattutto di mio padre, che a parità di “sollecitazione” un giorno diceva una cosa e il giorno dopo un’altra. Per esempio, di norma urlava e mi sgridava duramente quando io facevo rumore o mettevo qualcosa in disordine, ma arrivava la volta in cui, rimanendo silenzioso e pressoché immobile come un soldatino prussiano, io mi sentivo dire da lui: “Ma come? Non giochi? Gioca! Tutti gli altri bambini sono vispi, vivaci, tu sembri un deficiente”. Quindi io mi mortificavo, non capivo e mi tormentavo per capire dove avessi sbagliato, e se il giorno dopo (con lo spirito di chi fa un compito, senza più un briciolo di naturalezza) mi concedevo un po’ di esuberanza infantile, subito incorrevo di nuovo nelle più severe reprimende. E poiché questa era la regola, io mi abituai a ricorrere a una sorta di oracolo musaico, di grande enciclopedia della lingua e della semantica che era mia madre. Andavo da mia madre e le riferivo tutto per filo e per segno imitando il tono di voce di mio padre (e ripetendo l’imitazione finché non mi soddisfacesse): ”Senti, il papà ha detto questo, io avevo fatto questo e lui ha detto così e così. Come lo devo interpretare?”. A volte mio padre aveva intercalato un “magari”. Io restavo ossessionato da quel “magari”, me lo ripetevo ottantacinque volte nella mente cercando di ripetere l’inflessione giusta, ma come tutti sanno quando si ripete qualcosa a oltranza la si destituisce di senso. E quindi io più mi avvitavo e mi ingorgavo in questo esercizio ripetitivo e decostruttivo più perdevo il senso delle parole, più sentivo che la realtà mi sfuggiva. Quindi avevo bisogno di un interprete e andavo dalla mamma e le dicevo: ”Senti questo ‘magari’, l’hai sentito? Lo devo prendere come una promessa o come una minaccia? Lo devo prendere come un invito o come una sfida, come cavolo devo prenderlo?”
 
Credo inoltre di aver sviluppato in modo un po’ morboso tutta una serie di fantasticherie legate ad avventure mentali, a integrazioni che come protesi applicavo ai libri che leggevo: e sempre con questa componente un po’ sadica e masochistica insieme di chi prende la parola, la infilza e la mette sul tavolo sotto un fascio di luce: fondamentalmente per un’autopsia. Questa è veramente la “situazione” che lega i miei libri (cui peraltro io penso come a individui molto diversi fra loro): in essi è comune l’aggressione alla cosa, alla materia, all’episodio nel tentativo di farlo cantare come un poliziotto che riempia di botte un sospetto, il che spiega forse perché io mi senta sempre un po’ brutale nei confronti delle cose di cui parlo.
Michele Mari
Nostalgia, ovvero l'invenzione del passato
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