lunedì 20 aprile 2015

fare i conti con il proprio passato

fare i conti con il proprio passato


Mi è capitato recentemente di leggere un saggio di Eugène Minkowski11 sulla tendenza di un certo tipo nevrotico a “topicizzare” la memoria, o meglio il passato, plasticizzandolo e reificandolo come se fosse un paesaggio, un luogo: un luogo visitabile e ripercorribile all’infinito, perché in esso tutto è fermo e bloccato, ma non (si badi) concluso: bloccato e pietrificato, invece, proprio nella sua incompiutezza, nella sua frustrazione, e in quanto non ci soddisfa e finalmente ci angoscia: rapporti con gli altri, comportamenti propri, discussioni, situazioni, gesti, tutto sembra pronto per rimettersi in gioco, come un “fermo immagine” che attenda di ripartire.
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Questo naturalmente non è dato, ma la sola riconsiderazione di quelle virtualità e di quegli atti mancati o distorti, la loro classificazione e ripetizione e numerazione (e alla fine stilizzazione) regala una sorta di gratificante illusione, quella di avere tutto sotto controllo, letteralmente, di “vederlo”, e vedendolo di circoscriverlo, recintarlo, esorcizzarlo (ma non escludo forme più masochistiche e morbose di voluttà ricapitolativa, come quando grattandoci infiammiamo la zona irritata). In ogni caso muoversi nel grande canyon della propria memoria come sul set di un film di John Ford comporta la condizione paradossale di storicizzare-comprendere i propri mali attraverso la geografia, che essendo la scienza dello spazio fornisce la tecnica di “aggirare” i luoghi scabrosi dell’indicibile.
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Declinare spazialmente angoscia, nevrosi e memoria, in ogni caso, è la ratio di chi ha un rapporto insoluto con il proprio passato, e sente che vivere, continuare a vivere, è l’indebito aggiornamento o perfezionamento sovrastrutturale di ciò che dev’essere prima “sistemato” strutturalmente: come chi sapendo di aver gettato precarie fondamenta continui fra i sensi di colpa nella costruzione e, peggio ancora, nell’arredamento di una casa (questo almeno è quanto ho voluto dire con il racconto Laggiù, perché veramente io oggi, io scrittore, io professore, io quarantenne, io marito e padre, mi sento in tutti questi miei stati l’“arredatore” di una vita la cui struttura risale a un periodo che non va oltre il 1966). L’espressione che usa Minkowski in proposito è “spazio chiuso” o “spazio fissato” (nota bene: non “tempo chiuso” o “tempo fissato”, come se un tempo-non tempo di questo tipo fosse automaticamente uno spazio).

Michele Mari
Nostalgia, ovvero l'invenzione del passato
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