Julio Cortazar
Del sentimento di non esserci del tutto - II
L’uomo dei nostri tempi crede con facilità che la sua informazione filosofica e storica lo salvi dal realismo ingenuo. Durante conferenze universitarie e chiacchiere da bar arriva ad ammettere che la realtà non è quella che sembra, ed è sempre pronto a riconoscere che i suoi sensi lo ingannano e che la sua intelligenza gli produce una visione tollerabile ma incompleta del mondo. Ogni volta che pensa metafisicamente si sente «più triste e più saggio», ma la sua ammissione è momentanea ed eccezionale mentre il continuum della vita lo colloca in pieno nell’apparenza, la concretizza intorno a lui, la riveste di definizioni, funzioni e valori. Quest’uomo è un ingenuo realista più che un realista ingenuo. Basta osservare il suo comportamento di fronte a tutto ciò che è eccezionale, insolito; o lo riduce a un fenomeno estetico o poetico («era qualcosa di veramente surrealista, te lo giuro») o rinuncia subito ad analizzare l’intravisione che hanno potuto produrgli un sogno, un atto mancato, un’associazione verbale o causale fuori dal comune, una coincidenza sconvolgente, qualunque frattura istantanea del continuum. Se lo si interroga, dirà che non crede affatto nella realtà quotidiana e che la accetta soltanto pragmaticamente. E invece sì che ci crede, è l’unica cosa in cui crede. Il suo senso della vita è simile al meccanismo del suo sguardo. A volte ha un’effimera coscienza del fatto che ogni tot secondi le palpebre interrompono la visione che la sua coscienza ha deciso di ritenere permanente e continua; ma quasi subito il battito delle ciglia ridiventa inconscio, il libro o la mela si fissano nella loro ostinata apparenza. C’è come un accordo fra gentiluomini tra la circostanza e i circostanziati: tu non modifichi le mie abitudini, e io non ti stuzzicherò con un bastoncino. L’uomo-bambino però non è un gentiluomo ma un cronopio che non capisce bene il sistema di linee di fuga grazie alle quali si crea una prospettiva soddisfacente di quella circostanza, oppure, come succede nei collages mal fatti, si sente su una scala diversa rispetto a quella della circostanza, una formica che non entra in un palazzo o un numero quattro in cui non entrano che tre o cinque unità. A me questo accade in modo palpabile, a volte sono più grande del cavallo che monto, e certi giorni cado dentro una delle mie scarpe e prendo una botta terribile, senza contare la fatica per uscirne, le scale fabbricate nodo dopo nodo con i lacci e l’orribile scoperta, una volta arrivato al bordo, che qualcuno ha riposto la scarpa in un armadio e che sto peggio di Edmond Dantès nel castello d’If visto che negli armadi di casa mia non c’è neppure un abate a portata di mano.
[...]
traduzione di Eleonora Mogavero
Jamais réel et toujours vrai
(In un disegno di Antonin Artaud)
Questa sorta di costante ludica spiega, se non giustifica, buona parte di quello che ho scritto o ho vissuto. Ai miei romanzi si rimprovera una ricerca intellettuale sul romanzo stesso – quel gioco sul bordo del balcone, quel fiammifero accanto alla bottiglia di benzina, quella pistola carica sul comodino –, che sarebbe un po’ come un commento continuo dell’azione e spesso l’azione di un commento. Mi annoia argomentare a posteriori che nel corso di questa dialettica magica un uomo-bambino sta lottando per concludere il gioco della sua vita: un-due-tre-a-chi-tocca-tocca-a-te. Perché un gioco, a ben vedere, non è forse un processo che parte da una dislocazione per arrivare a una collocazione, a un piazzamento – goal, scacco matto, tana libera tutti? Non è il compimento di una cerimonia che si avvia alla fase finale che la corona?
(In un disegno di Antonin Artaud)
L’uomo dei nostri tempi crede con facilità che la sua informazione filosofica e storica lo salvi dal realismo ingenuo. Durante conferenze universitarie e chiacchiere da bar arriva ad ammettere che la realtà non è quella che sembra, ed è sempre pronto a riconoscere che i suoi sensi lo ingannano e che la sua intelligenza gli produce una visione tollerabile ma incompleta del mondo. Ogni volta che pensa metafisicamente si sente «più triste e più saggio», ma la sua ammissione è momentanea ed eccezionale mentre il continuum della vita lo colloca in pieno nell’apparenza, la concretizza intorno a lui, la riveste di definizioni, funzioni e valori. Quest’uomo è un ingenuo realista più che un realista ingenuo. Basta osservare il suo comportamento di fronte a tutto ciò che è eccezionale, insolito; o lo riduce a un fenomeno estetico o poetico («era qualcosa di veramente surrealista, te lo giuro») o rinuncia subito ad analizzare l’intravisione che hanno potuto produrgli un sogno, un atto mancato, un’associazione verbale o causale fuori dal comune, una coincidenza sconvolgente, qualunque frattura istantanea del continuum. Se lo si interroga, dirà che non crede affatto nella realtà quotidiana e che la accetta soltanto pragmaticamente. E invece sì che ci crede, è l’unica cosa in cui crede. Il suo senso della vita è simile al meccanismo del suo sguardo. A volte ha un’effimera coscienza del fatto che ogni tot secondi le palpebre interrompono la visione che la sua coscienza ha deciso di ritenere permanente e continua; ma quasi subito il battito delle ciglia ridiventa inconscio, il libro o la mela si fissano nella loro ostinata apparenza. C’è come un accordo fra gentiluomini tra la circostanza e i circostanziati: tu non modifichi le mie abitudini, e io non ti stuzzicherò con un bastoncino. L’uomo-bambino però non è un gentiluomo ma un cronopio che non capisce bene il sistema di linee di fuga grazie alle quali si crea una prospettiva soddisfacente di quella circostanza, oppure, come succede nei collages mal fatti, si sente su una scala diversa rispetto a quella della circostanza, una formica che non entra in un palazzo o un numero quattro in cui non entrano che tre o cinque unità. A me questo accade in modo palpabile, a volte sono più grande del cavallo che monto, e certi giorni cado dentro una delle mie scarpe e prendo una botta terribile, senza contare la fatica per uscirne, le scale fabbricate nodo dopo nodo con i lacci e l’orribile scoperta, una volta arrivato al bordo, che qualcuno ha riposto la scarpa in un armadio e che sto peggio di Edmond Dantès nel castello d’If visto che negli armadi di casa mia non c’è neppure un abate a portata di mano.
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traduzione di Eleonora Mogavero
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