Ho detto che trovavo le apparenze piú ingannevoli e tormentose di quanto mi fossero mai sembrate in passato. Era come se avessi perso una qualche speciale capacità di filtrare le mie stesse percezioni, una capacità di cui mi ero resa conto solo dopo che era svanita, allo stesso modo in cui un pannello di vetro mancante in una finestra permette al vento e alla pioggia di scatenarsi all’interno. Era all’incirca cosí che mi sentivo, esposta a ciò che vedevo, e da ciò sconfitta.
Spesso pensavo al capitolo di Cime tempestose in cui Heathcliff e Cathy dal buio del giardino guardano attraverso le finestre il salotto dei Linton e osservano la scena famigliare illuminata.
Quel che è fatale, nel loro sguardo, è la soggettività: dalla finestra i due vedono cose diverse, Heathcliff ciò che teme e detesta e Cathy ciò che desidera e di cui si sente privata. Ma né l’uno né l’altra vedono le cose come realmente sono.
E allo stesso modo, io stavo cominciando a vedere le mie paure e i miei desideri manifestarsi fuori da me, a vedere nella vita degli altri una cronaca della mia. Guardando la famiglia sulla barca, vedevo ciò che non avevo piú: in altre parole, vedevo qualcosa che non c’era. Quelle persone vivevano nel loro momento, io ero in grado di vederlo ma non avrei potuto tornare a tale momento piú di quanto non potessi camminare sulle acque che ci separavano. E di quei due modi di vivere – vivere nel momento o fuori di esso – qual era piú reale?
Rachel Cusk
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