Dio, quanto non sopporto la sciocca mania di vedere segni 
nelle cose. Una degenerazione tutta umana. Gli animali non vedono segni, non si interrogano sui casi della vita, non ci costruiscono castelli sopra. Gli basta mettere all’erta i sensi, tendere l’orecchio. Fiutano l’aria e capiscono come butta, se ci sono in arrivo terremoti o altre catastrofi. Noi, se fiutiamo l’aria, percepiamo perlopiú gli odori cattivi, che solitamente si avvertono a cose ormai fatte, quando la decomposizione del cadavere è già un bel pezzo avanti. Oppure odori molto intensi, quasi sempre emanati da attività umane, sicché il massimo che ci riesce di prevedere coi nostri nasi è che mangeremo per pranzo o l’avvicinarsi di una donna profumata. Essendo tra coloro che faticano a cogliere differenze sostanziali tra gli uomini e il regno animale, tendo a considerare la limitatezza dei sensi un difetto acquisito al quale ho posto pateticamente rimedio cominciando a interpretare il mondo anziché percepirlo.
Presi da una inconsapevole nostalgia per quando eravamo bestie, ci aggiriamo nelle nostre vite annusando ciò che incrociamo e siccome non sentiamo niente e non tolleriamo che le cose non ci parlino, come sembrano invece fare con gli animali, ci illudiamo che con noi si esprimano in maniera diversa, con il linguaggio dei segni appunto, come un sordomuto qualsiasi, e illudendoci, spesso combiniamo piú disastri di quelli cui andremmo incontro se ci affidassimo al semplice buon senso.
Questa è la mia esperienza, almeno. Il dono di saper vivere si misura anche da come si resiste alla sciocca tentazione di delegare le proprie scelte a fantomatici segni del destino. Se oggi mi trovo qui, anzi dirò di piú: se non sento alcun vero desiderio di essere altrove, se non ho la minima curiosità di rivedere il mondo da cui sono escluso, lo devo proprio ai segni.
Tommaso Pincio
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