Grazia Deledda - lettera a Stanis
Nuoro, 16 agosto 1892
Stanis! Il vostro biglietto è stato per me non più uno schiaffo, come la lettera precedente, ma addirittura un colpo di frusta che mi ha squarciato e insanguinato il viso. Ma siete cattivo, siete cattivo dunque, che mi fate soffrire così? Ah, vedete, nessuno, mai, prima di voi, si è permesso di insultarmi, e, spero, nessuno se lo permetterà mai più! Perché, con qual diritto mi insultata? Ho atteso di calmarmi prima di rispondervi: ora sono calma, amaramente calma, e vi rispondo. Ma non lo meritate. Vi sono certi piccoli brani di carta che rompono intere esistenze, che distruggono le più grandi illusioni, e il vostro bigliettino è nel numero. Io lo conserverò sempre in memoria della più brutta giornata della mia fanciullezza…
E le donne cattive, le donne perverse, corrotte, ambiziose, mostruose, come voi volete che io sia, non usano rispondere a questi bigliettini, ma si vendicano, se non più, col disprezzo, con l’indifferenza, o con altrettanti insulti. Io però sento troppo la fierezza della mia coscienza onesta, perché non vi risponda, senza rancore, senza sentimentalismo, colla percezione della realtà. Il vostro scopo, lo comprendo, è di umiliarmi. E sia. Non mi sono mai umiliata, mai, davanti a nessuno. Eppure oggi eccomi davanti a voi, a fronte china, eccomi umile, eccomi straziata da questa atroce, da questa vertiginosa umiliazione che porta seco un brano dell’anima mia. Ieri ho pianto come una pazza: vi ho scritto una lunga lettera che poi ho lacerata, sbranata, dispersa al vento, come avrei voluto disperdere la mia amarezza, tutta me stessa, poi…
Oh, che brutta notte ho passato!... e come sono triste ancora nonostante la mia calma e il mio sorriso amaro…
Ebbene, sì, Stanis, giacché lo sapete, giacché ne siete sicuro, giacché volete da me questa confessione brutale che rompe la nostra amicizia, per sempre, per sempre… sì, vi ho amato, perdutamente, con l’amore il più strano, il più doloro che si possa immaginare. Perché vi ho amato? Non so. Il più delle volte le donne si innamorano per vanità, nel sentirsi amate e corteggiate. Io non ho mai osto sperare, neppure in sogno, di essere amata da voi: ho veduto sempre con lucida visione la distanza che corre fra noi e non ho sperato mai. Eppure vi ho amato… forse per la stessa disperazione che includeva quest’amore, per la stessa angoscia che lo rendeva più acuto, per uno di quei misteri spirituali di cui non potrebbe fare la selezione, l’analisi, neppure lo stesso Bourget.
Vorrei trovare una sola frase che potesse scolpirvi qui, sulla carta, la lunga storia dolorosa, la strana altalena di sogni, di lotte intime, di lagrime, di febbri, di disperazione, di spasmi, che ha vissuto la mia povera anima, ma non la trovo, ma voi, che siete pure innamorato disperatamente, che soffrite, vi immaginerete facilmente ciò che ho sofferto io. Oppure vorrei rimandarvi il vostro, e il “Libro di devozioni”, affinché vi narrassero essi, essi soli, miei confidenti, miei muti testimoni, che hanno sentito tutte le vibrazioni del mio povero cervellino, che hanno bevuto tante mie lagrime e sentito tanto i miei singulti, la triste istoria, ma anche ciò che è impossibile, … impossibile… perché… io non posso privarmene…
Restano solo le mie slavate parole. Forse voi non mi credete, forse crederete che anche sta volta vi scriva con cervello e non col cuore… ma non fa nulla. Mi crediate o non io mi sento in debito di dirvi tutto, di umiliarmi sino a terra davanti a voi, per poi andarmene lontana, lontana, per sempre, lasciandovi soddisfatto… di voi medesimo. Senza dubbio ho fatto male a scrivervi l’ultima mia. Ma mettetevi nei miei panni, e siate giusto, o Stanis, siate generoso e imparziale.
Ecco, voi mi scrivete che siete innamorato, e che lo sarete sempre, di un ‘altra: che il mio amore vi ha dato fastidio, dispetto, che lo disprezzate, che lo respingete… Tutte queste belle cose a me giungono come un sonoro schiaffo su una guancia. E voi volete che io, dopo ciò, vi porga l’altra guancia, dicendovi: ancora, ancora! Cioè confessandovi l’amor mio?
Ah, Stanis, io sono credente, io sono pia, ma non seguo, non posso seguire tanto e tanto le massime di Cristo!... Non posso!... Dovevo restar zitta, sotto il peso dell’angoscia umiliazione che mi soffocava, ma non ho potuto fare neppure ciò. E credendo, e volendo conservare la vostra amicizia, che attraverso lo spazio mi recasse almeno un soffio della vostra esistenza, no creduto bene scrivervi quella lettera, che in parte è vera.
Sì, è vera nelle sfumature, è vero in ciò che vi dice delle mie sofferenze, della tristezza della mia vita, solo queste sofferenze, questa tristezza, io non l’ho attraversata che per… voi! È vero anche che scrivo lettere d’amore al giovine che vi ho accennato: nella fitta tenebria che mi circondava, che mi faceva perdere la ragione e la salute, io ho cercato dimenticarvi, inebriarmi nell’adorazione di un altro, in un amore vicino e reale e sconfinato. Che io sia riuscita a dimenticarvi, a guarire, a stordirmi, poco vi importi sapere. È un affare che riguarda me sola, e che saprò io ben terminare.
Grazia Deledda
lettera a Stanis
Nuoro, 16 agosto 1892
Stanis! Il vostro biglietto è stato per me non più uno schiaffo, come la lettera precedente, ma addirittura un colpo di frusta che mi ha squarciato e insanguinato il viso. Ma siete cattivo, siete cattivo dunque, che mi fate soffrire così? Ah, vedete, nessuno, mai, prima di voi, si è permesso di insultarmi, e, spero, nessuno se lo permetterà mai più! Perché, con qual diritto mi insultata? Ho atteso di calmarmi prima di rispondervi: ora sono calma, amaramente calma, e vi rispondo. Ma non lo meritate. Vi sono certi piccoli brani di carta che rompono intere esistenze, che distruggono le più grandi illusioni, e il vostro bigliettino è nel numero. Io lo conserverò sempre in memoria della più brutta giornata della mia fanciullezza…
E le donne cattive, le donne perverse, corrotte, ambiziose, mostruose, come voi volete che io sia, non usano rispondere a questi bigliettini, ma si vendicano, se non più, col disprezzo, con l’indifferenza, o con altrettanti insulti. Io però sento troppo la fierezza della mia coscienza onesta, perché non vi risponda, senza rancore, senza sentimentalismo, colla percezione della realtà. Il vostro scopo, lo comprendo, è di umiliarmi. E sia. Non mi sono mai umiliata, mai, davanti a nessuno. Eppure oggi eccomi davanti a voi, a fronte china, eccomi umile, eccomi straziata da questa atroce, da questa vertiginosa umiliazione che porta seco un brano dell’anima mia. Ieri ho pianto come una pazza: vi ho scritto una lunga lettera che poi ho lacerata, sbranata, dispersa al vento, come avrei voluto disperdere la mia amarezza, tutta me stessa, poi…
Oh, che brutta notte ho passato!... e come sono triste ancora nonostante la mia calma e il mio sorriso amaro…
Ebbene, sì, Stanis, giacché lo sapete, giacché ne siete sicuro, giacché volete da me questa confessione brutale che rompe la nostra amicizia, per sempre, per sempre… sì, vi ho amato, perdutamente, con l’amore il più strano, il più doloro che si possa immaginare. Perché vi ho amato? Non so. Il più delle volte le donne si innamorano per vanità, nel sentirsi amate e corteggiate. Io non ho mai osto sperare, neppure in sogno, di essere amata da voi: ho veduto sempre con lucida visione la distanza che corre fra noi e non ho sperato mai. Eppure vi ho amato… forse per la stessa disperazione che includeva quest’amore, per la stessa angoscia che lo rendeva più acuto, per uno di quei misteri spirituali di cui non potrebbe fare la selezione, l’analisi, neppure lo stesso Bourget.
Vorrei trovare una sola frase che potesse scolpirvi qui, sulla carta, la lunga storia dolorosa, la strana altalena di sogni, di lotte intime, di lagrime, di febbri, di disperazione, di spasmi, che ha vissuto la mia povera anima, ma non la trovo, ma voi, che siete pure innamorato disperatamente, che soffrite, vi immaginerete facilmente ciò che ho sofferto io. Oppure vorrei rimandarvi il vostro, e il “Libro di devozioni”, affinché vi narrassero essi, essi soli, miei confidenti, miei muti testimoni, che hanno sentito tutte le vibrazioni del mio povero cervellino, che hanno bevuto tante mie lagrime e sentito tanto i miei singulti, la triste istoria, ma anche ciò che è impossibile, … impossibile… perché… io non posso privarmene…
Restano solo le mie slavate parole. Forse voi non mi credete, forse crederete che anche sta volta vi scriva con cervello e non col cuore… ma non fa nulla. Mi crediate o non io mi sento in debito di dirvi tutto, di umiliarmi sino a terra davanti a voi, per poi andarmene lontana, lontana, per sempre, lasciandovi soddisfatto… di voi medesimo. Senza dubbio ho fatto male a scrivervi l’ultima mia. Ma mettetevi nei miei panni, e siate giusto, o Stanis, siate generoso e imparziale.
Ecco, voi mi scrivete che siete innamorato, e che lo sarete sempre, di un ‘altra: che il mio amore vi ha dato fastidio, dispetto, che lo disprezzate, che lo respingete… Tutte queste belle cose a me giungono come un sonoro schiaffo su una guancia. E voi volete che io, dopo ciò, vi porga l’altra guancia, dicendovi: ancora, ancora! Cioè confessandovi l’amor mio?
Ah, Stanis, io sono credente, io sono pia, ma non seguo, non posso seguire tanto e tanto le massime di Cristo!... Non posso!... Dovevo restar zitta, sotto il peso dell’angoscia umiliazione che mi soffocava, ma non ho potuto fare neppure ciò. E credendo, e volendo conservare la vostra amicizia, che attraverso lo spazio mi recasse almeno un soffio della vostra esistenza, no creduto bene scrivervi quella lettera, che in parte è vera.
Sì, è vera nelle sfumature, è vero in ciò che vi dice delle mie sofferenze, della tristezza della mia vita, solo queste sofferenze, questa tristezza, io non l’ho attraversata che per… voi! È vero anche che scrivo lettere d’amore al giovine che vi ho accennato: nella fitta tenebria che mi circondava, che mi faceva perdere la ragione e la salute, io ho cercato dimenticarvi, inebriarmi nell’adorazione di un altro, in un amore vicino e reale e sconfinato. Che io sia riuscita a dimenticarvi, a guarire, a stordirmi, poco vi importi sapere. È un affare che riguarda me sola, e che saprò io ben terminare.
Grazia Deledda
lettera a Stanis
Questa è la seconda lettera che la Deledda scrive dopo il rifiuto da parte di Stanis Manca, nobil uomo e giornalista. Grazia aveva investito emotivamente su quello che sarebbe stato un matrimonio da mille e una notte. L'umiliazione del rifiuto brucia sotto più fronti. I benefici che cercava dal rapporto con il Manca sono sfumati in seguito ad una dichiarazione d'amore che l'uomo non gradisce anzi rifiuta con decisione che rasenta la brutalità. L'amore unilaterale di Grazia ora è sulla bocca di tutti i compaesani e questo è più di quanto possa sopportare. Insomma, oltre il danno la beffa: nessun nobil uomo la porterà via dall'angusto paese di montagna per permetterle una sfavillante carriera. Almeno per il momento.
La donna sarda
La donna sarda
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